Rimini: XLIII Meeting per l’amicizia fra i popoli. L’omelia del card. Matteo Zuppi
Oggi sono condotti qui “tutti i vostri fratelli da tutte le genti”, quelli i cui nomi portiamo ben scritti nel nostro cuore e i tanti che ci precedono nella strada per la festa senza fine ad iniziare dal servo di Dio Luigi Giussani che ricordiamo nel centenario della sua nascita. Ci guardano dal cielo e noi li guardiamo in un unico orizzonte infinito di amore. Quanto è vero che non si può avere Dio per Padre se non abbiamo la Chiesa come madre! E la Chiesa non è un’entità impalpabile, astratta, diafana ma assume i tratti, umani e spirituali, della nostra esperienza, della carne, del carisma di questa chiamata che ci fa riconoscere il dono che siamo. «Se il Verbo si è fatto carne, è in una carne che noi lo troviamo, identicamente», diceva Giussani, e quindi non “un devoto ricordo o un vago sentimento di pietà per Gesù”. Che tristezza, anche, i cristiani figli di sé stessi, che scambiano individualismo per maturità, che contrappongono l’appartenenza alla coscienza, la comunione alla responsabilità, un legame forte alla libertà interiore. Ecco la bellezza di essere qui aiuta tutti noi a godere della comunione che ci unisce tra noi e con la Chiesa tutta. Per capirla e aiutarla deve “approfondirsi nella fede personale, nel rapporto personale con Cristo e Dio”, non viceversa, cercando “prima di tutto aprirci a noi stessi, accorgerci vivamente delle nostre esperienze, guardare con simpatia l’umano ch’è in noi, prendere in considerazione quello che siamo veramente”.
Il nostro è un padre che “corregge colui che ama”. Dio ci tratta da figli, non da estranei; da padre, non da accompagnatore distratto che lascia fare o da asettico giudice che osserva e sentenzia. Il padre non coltiva il sospetto, non investe con il vento gelido di un giudizio distaccato, ma ci mette davanti a noi stessi, aiutandoci a scegliere, a ritrovarci, aspettando che siamo noi a raggiungere la sua e nostra casa per poterci abbracciare e renderci di nuovo padroni di noi stessi. Scriveva Péguy che il nostro Padre non ci possiede, ma desidera solo che cominciamo ad amarlo come uomini, liberamente, gratuitamente, aspettando l’ora segreta “quando i suoi figli cominciano a diventare uomini, / Liberi / E lui stesso trattato come un uomo, / Libero, quando la sottomissione precisamente cessa e quando i suoi figli divenuti uomini / L’amano”. E per ottenerci questa libertà, questa gratuità ha sacrificato tutto. Per questo “Sforzatevi di entrare per la porta stretta”. Gesù non allarga la porta dell’amore tanto da non significare più nulla. Non ne fa una su misura, perché Lui è la misura, la porta. Gesù guardò con amore l’uomo ricco ma questi pensò che fosse una porta troppo stretta lasciare tutto perché il suo cuore era nelle ricchezze e non capì l’amore del maestro, la sua passione che conquista il cuore e fa sentire nel cuore la “vibrazione ineffabile e totale”. È una porta stretta per le passioni tristi e epidermiche della nostra generazione. La porta della gratuità è stretta in un mondo dove decide la convenienza individuale o di gruppo, ma dopo scopri la libertà dell’amore. La porta del perdono è stretta all’inizio, ma poi apre a ritrovare se stessi e il fratello. La porta è stretta per chi pensa di provarne infinite senza imparare mai ad amare per davvero. “La cultura di oggi ritiene impossibile conoscere, cambiare sé stessi e la realtà “solo” seguendo una persona”, diceva Giussani. L’esistenza di una porta e per di più stretta infastidisce uomini come noi, allettati dal facile e dal rapido, convinti di avere diritto a tutto senza sacrificio, perdendosi davanti alle prime difficoltà. Gesù per primo passerà per la porta stretta del non salvare sé stesso, di bere il calice e di amare fino alla fine. È la porta che passa chi ama, chi ha una passione per cui “l’istante non è più banalità”, per chi non vuole “vivere inutilmente”, come diceva Giussani. La passano i piccoli, i peccatori, i mendicanti della vita, i sognatori che non si arrendono al vuoto dell’amore e alla depressione escatologica, cioè al vivere senza speranza. È la porta che si apre a quanti si mettono in cammino da oriente e occidente, non pensano di essere loro al centro e cercano Gesù e il suo prossimo. La porta è all’inizio stretta ma poi diventa incredibilmente larga, si apre all’infinito, tanto da raggiungere il mondo intero, da farci entrare nel regno dei cieli, cioè nella felicità con tutti. Entriamo per questa porta quando condividiamo nella caritativa quello che abbiamo con chi non lo ha; quando liberiamo qualcuno dalla tortura della solitudine, quando rendiamo amato il soffio della vita accompagnandolo dal suo inizio fino alla sua fine, quando invitiamo a pranzo chi non può restituircelo. La porta larga poi diventa, invece, terribilmente stretta, perché riduce tutto all’io! Il mondo e la Chiesa hanno bisogno della passione irriducibile e forte per l’umano, piena di Cristo e che riconosce in questo il desiderio di Dio. Gesù ha passato la porta stretta, “si è reso finito, per liberare la nostra finitezza e “condurla nella dimensione della sua infinità, per venire incontro alle esigenze del nostro essere”, per potere dire anche noi “Dio veramente grande! Dio veramente buono! io mi conosco ora, comprendo chi sono”.
“Verranno da oriente e da occidente, da settentrione e da mezzogiorno e siederanno a mensa nel regno di Dio”. Dio sia benedetto e sia benedetta questa nostra vita, da spendere, questa casa da costruire e amare con tutto noi stessi, questo mondo drammatico, pieno di sofferenza e di morte, di spreco e povertà, per cui avere la compassione di Gesù. È quella che ha vissuto e trasmesso Giussani che appena ordinato prete scrisse a un amico: «È da parecchi anni che io non piango più che per due motivi: il pensiero dell’infelicità eterna dei miei fratelli uomini – il pensiero dell’infelicità terrena degli uomini, simbolo di quella eterna. Noi Gesù ha scelto per gridare nel mondo il suo Amore e la felicità degli uomini: la grande e inenarrabile felicità che ci attende». È possibile. È il nostro ringraziamento per sentirla nel cuore. Sia la passione di ognuno per i nostri “Fratelli tutti”.
Santa Maria, Madre di Dio, conservami un cuore di fanciullo, puro e limpido come acqua di sorgente. Ottienimi un cuore semplice, che non si ripieghi ad assaporare le proprie tristezze; un cuore magnanimo nel donarsi, facile alla compassione; un cuore fedele e generoso, che non dimentichi alcun bene e non serbi rancore di alcun male. Formami un cuore dolce e umile che ami senza esigere di essere riamato, contento di scomparire in altri cuori, sacrificandosi davanti al Tuo Divin Figlio; un cuore grande e indomabile, così che nessuna ingratitudine lo possa chiudere e nessuna indifferenza lo possa stancare; un cuore tormentato dalla gloria di Cristo, ferito dal Suo amore, con una piaga che non si rimargini se non in cielo.
(Foto: Siciliani-Gennari/SIR)