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Martina Pacini

S. Antonio Abate: benedizione del sale e degli animali nelle parrocchie della Diocesi

Domenica 17 gennaio al termine delle celebrazioni eucaristiche nelle parrocchie di Busseto, San Rocco, Samboseto e Semoriva, in occasione della ricorrenza di sant’Antonio Abate sarà benedetto il sale secondo l'antica tradizione contadina. I fedeli potranno portare a casa il sale benedetto che, un tempo, veniva consumato dal bestiame per prevenire le malattie e favorirne l’allevamento. Alle porte delle stalle, come ricorda anche il parroco don Luigi Guglielmoni, è sempre stata esposta l’immagine di Sant’Antonio abate, considerato patrono degli animali, tanto da essere raffigurato spesso con accanto un animale con al collo una campanella. La tradizione nasce dalla consuetudine degli Antoniani di allevare maiali all’interno dei centri abitati, poiché il grasso di tali animali veniva usato per ungere coloro che erano afflitti dal cosiddetto <fuoco di Sant’Antonio>.

Sempre in occasione della stessa ricorrenza durante le celebrazioni a Stagno (8.45), Ragazzola (9.45) e Pieveottoville (alle 11), il parroco don Benjamin benedirà il sale e il pane, anche in questo caso nel segno della fede e della tradizione.

Alle 15.30 nella chiesa di Tabiano Bagni la s. Messa sarà celebrata in memoria di S. Antonio Abate con la tradizionale benedizione degli animali.

Durante le celebrazioni di domenica 17 gennaio (ore 8.30 - 10.30 e 18) nella parrocchia di Sant' Antonio a Salsomaggiore verrà benedetto il sale.

Il racconto di don Luigi Guglielmoni sulla sua condizione di malato Covid-19

“Sono un miracolato della medicina e delle preghiere di tanti”.
Inizia così il racconto di don Luigi Guglielmoni, Vicario per la Pastorale della nostra Diocesi e parroco dell’unità di Busseto, Madonna Prati, Roncole Verdi, Samboseto, Semoriva e S. Rocco, circa la sua esperienza di malato Covid-19 ricoverato presso l’ospedale Maggiore di Parma.
Giunto nelle parrocchie della Bassa Parmense dopo essere stato per 20 anni parroco della popolosa comunità di Sant’Antonio a Salsomaggiore Terme, don Luigi aveva da poco iniziato ad occuparsi di numerosi progetti condivisi con mons. Pier Giacomo Bolzoni, aiutante in parrocchia, e con il vicario parrocchiale don Matteo Piazzalunga. Era impreparato ad affrontare una malattia così pericolosa come il Covid-19.
Ricoverato domenica 4 ottobre, il sacerdote ha trascorso i primi giorni all’interno del padiglione “Barbieri” con la febbre sempre molto alta. Successivamente è stato ricoverato nel reparto di rianimazione con la maschera per l’ossigeno. “Sono stati giorni molto pesanti nei quali ho invocato spesso mons. Stefano Bolzoni e i miei cari defunti perché mi venissero a prendere e mi portassero con loro. Non vedevo futuro davanti a me per la difficoltà respiratoria” ha ammesso don Luigi. E’ stato poi condotto nell’ala attrezzata per la rianimazione dei pazienti affetti da Covid e lì attaccato agli ausili sanitari per cercare di far lavorare al meglio i polmoni. Ma anche questa cura si è rivelata inefficace: “Devo ringraziare la professoressa Tiziana Meschi e la dottoressa Laura Malchiodi, che si sono prese molto cura di me”.
Dopo tanti tentativi di cura la dottoressa chiede a don Luigi di poter procedere con una nuova terapia che richiede il coma farmacologico: per 16 giorni egli è stato sedato, intubato, pronato. Di tale esperienza non ricorda assolutamente nulla. Ma anche questa cura sembra all’inizio inefficace: per due settimane il sacerdote fidentino è stato in condizioni gravissime. Con delicatezza i medici avevano già avvisato i familiari, che hanno sofferto più di tutti tale dramma: “Per me il rischio era di passare dal sonno alla morte, senza poter rivedere per un’ultima volta le persone a me più care o dare un saluto alla parrocchia”.
In modo del tutto inaspettato, il sedicesimo giorno il corpo di don Luigi ha reagito: è stato risvegliato e ha iniziato gradualmente a respirare senza più bisogno della maschera di ossigeno. Nel frattempo sono stati tanti i messaggi e le telefonate recapitati al cellulare del sacerdote. Nessuno all’inizio ha ottenuto risposta: ciò ha dato adito a dicerie e a pensieri negativi sul suo stato di salute. Per lungo tempo però il sacerdote non ha potuto rispondere alle chiamate: indossava infatti la maschera per l’ossigeno e poi è stato impossibilitato a parlare in seguito alla tracheotomia subita.
Dopo due mesi di degenza don Luigi è stato trasferito presso la Fondazione “Don Gnocchi” per riequilibrare alcuni valori che il Covid aveva alterato e per seguire la riabilitazione, con la guida competente della fisiatra Beatrice Rizzi e dell’equipe di fisioterapisti.
“Ringrazio il Vescovo, i confratelli e i diaconi, tutte le comunità e le persone che in Diocesi e in varie parti d’Italia hanno pregato per me. Anche altri Vescovi, alcuni Cardinali e il Prefetto della Casa Pontificia più volte si sono interessati alla mia salute. Ho sentito particolarmente vicine le comunità di Busseto e del circondario, come pure la comunità di Sant’Antonio a Salsomaggiore Terme e di San Michele a Fidenza. E’ stata una preghiera incessante, capillare, nelle assemblee liturgiche, nelle famiglie e nei cuori. Sono convinto di essere stato salvato dall’impegno dei sanitari e dalla preghiera di persone praticanti e di tante altre poco abituate a pregare” confessa commosso don Luigi.
“Non mi sarei aspettato un così grande affetto da parte dei bussetani perché in fin dei conti sono stato tra loro molto poco”. La memoria di mons. Stefano Bolzoni, deceduto lo scorso aprile, e l’aggravarsi delle condizioni fisiche del nuovo parroco hanno favorito una partecipazione ampia e sincera. “Mi sento in debito con loro e con tutti e sono desideroso di spendermi ancora più generosamente per il Signore e per il prossimo”.
Don Luigi è stato “ridonato” alla vita oltre ogni speranza umana, come Lazzaro nel Vangelo. “Mi chiedo se forse non ero pronto all’incontro con Dio e avessi bisogno ancora di conversione. L’unica volta che in rianimazione è venuto il cappellano dell’ospedale gli ho chiesto di amministrarmi il sacramento della Santa Unzione. Forse il Signore voleva che io ricevessi ancora del bene da parte degli altri o che facessi ancora del bene a mia volta. Sono domande che spesso mi faccio, nella riconoscenza a Dio e nella ricerca di discernimento”. Don Luigi riconosce anche che: “Ho imparato ad apprezzare il dono della salute fisica, del tempo che non ci appartiene, delle relazioni interpersonali, della fede, della preghiera, del servizio che mi veniva reso nel momento della prova. Ho appreso il senso del limite, la debolezza fisica, l’umiltà, la precarietà delle sicurezze umane, la pazienza, l’accettazione della realtà, la dipendenza dagli altri in tutto, la disponibilità ai cambiamenti della vita, la paura la morte…
Ho pregato come ho potuto, invocando Maria e alcuni Beati e Venerabili a me molto cari: sono certo che, nella mia guarigione, ci sia anche la loro mano benefica. Sono pronto a darne testimonianza scritta in vista della loro canonizzazione”.

Contrariamente al parere di tanti don Luigi ha desiderato tornare subito in parrocchia, senza ulteriore convalescenza altrove. La città e l’unità pastorale di Busseto sono state molto felici del suo ritorno: “E’ stato il più bel regalo di Natale”, si sente mormorare fra il popolo di fedeli. Pur con fatica don Luigi ha presieduto la Messa della vigilia di Natale e ha tenuto una testimonianza di sofferenza e di speranza, che si è conclusa con un grande applauso da parte della platea di fedeli.
Il bisogno prolungato di fisioterapia e la scarsità di resistenza fisica da una parte lo preoccupano e dall’altra lo portano ad affidarsi maggiormente al Signore e a coinvolgere di più i fedeli e i confratelli che lo hanno sostituito egregiamente. A tal proposito il Vicario per la Pastorale tiene a ringraziare don Gianemilio Pedroni per aver amministrato in sua assenza le comunità a lui affidate.
“Quando sono debole, è allora che sono forte”, scrive San Paolo in 2Cor 12,10. Tornare a casa dall’ospedale per il Natale ha avuto il sapore del dono, della nuova nascita, della vita che vince la prova, della ripartenza con la comunità.
Nei reparti in cui è stato ospite don Luigi si è sempre presentato come “sacerdote” (“parroco” dice abitualmente la gente) e come tale è sempre stato rispettato dal personale sanitario e dagli altri convalescenti. Per un lungo periodo non ha potuto dialogare con nessuno, ma ha imparato a parlare con gli occhi, col sorriso, con il dolore, con le lacrime, con la speranza.
Dall’esperienza della malattia oltre agli aspetti personali sono emersi anche alcune dimensioni pastorali. Dopo tanto tempo in un letto d’ospedale “ho preso meglio coscienza della presenza dei malati all’interno delle famiglie, delle strutture sanitarie, della comunità parrocchiale. Spesso si tende purtroppo a dimenticarsi dei malati, perché occupati in tante attività apparentemente più urgenti. Mi sono chiesto tante volte se forse non vada ripensato il modo di andare a far visita ai degenti: non occorrono frasi scontate, ma silenzio e condivisione con coloro che soffrono e con quanti si prendono cura di loro. Ha ragione Papa Francesco quando richiama la ‘grammatica della cura’ dell’altro” sottolinea don Luigi.
Nella solitudine e nella fatica la sofferenza è una grande scuola: si impara dalla malattia molto di ciò che la vita non sarebbe stata in grado di insegnare in nessun altro modo. “Condivido quanto diceva don Primo Mazzolari: ‘Chi soffre di più, guadagna di più’, perché impara ad amare di più e a vivere nella verità. Il dolore infatti abbatte ogni illusione di onnipotenza, trasforma i padroni in mendicanti, fa riscoprire la bellezza di essere amati, apre a Dio. Questa dura esperienza mi ha certamente segnato e cambiato in meglio. Il soffrire passa, l’aver sofferto resta. Dal buio può nascere una nuova aurora. E’ quanto mi auguro e chiedo al Signore, nella gratitudine a quanti (e sono davvero molti) mi sono stati vicini” conclude.

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(Testi di don Luigi Guglielmoni - Elaborazione a cura della redazione)

Corsi per fidanzati in preparazione al matrimonio - Vicariato di Fidenza

Sono state definite le date e le parrocchie del Vicariato di Fidenza che ospiteranno i corsi per fidanzati in preparazione al matrimonio. Il primo ciclo di appuntamenti avrà luogo ogni domenica alle ore 18 presso la parrocchia di San Michele con la guida del parroco don Marek insieme a Chiara e Fabrizio Ferri. Di seguito i giorni degli incontri: il 24 e il 31 gennaio; il 7, il 14, il 21 e il 28 febbraio; il 7, il 14 e il 21 marzo. Il secondo ciclo di appuntamenti avrà invece luogo ogni domenica alle ore 15.30 presso la parrocchia di San Francesco d’Assisi con la guida di p. Stefano insieme a Luca e Alessandra Malavolta e a Assunta e Stefano Relitti. Di seguito i giorni degli incontri: il 17, il 24 e il 31 ottobre; il 7, il 14, il 21 e il 28 novembre; il 5 e il 12 dicembre. Per partecipare agli incontri è opportuna la prenotazione telefonando al parroco di riferimento oppure ai testimoni: Chiara e Fabrizio Ferri (329.4130656); Assunta e Stefano Relitti (335.7444814).

A Chiusa Ferranda la benedizione del sale in memoria di S. Antonio Abate

S. Antonio Abate nacque in Egitto, a Coma, una località sulla riva sinistra del Nilo, intorno all'anno 250. Fu un eremita tra i più rigorosi nella storia del Cristianesimo antico. Antonio, di cui conosciamo la vita grazie alla biografia scritta dal suo discepolo Atanasio, fu un insigne padre del monachesimo orientale.

Malgrado appartenesse ad una famiglia piuttosto agiata, mostrò sin da giovane poco interesse per le lusinghe e per il lusso della vita mondana: alle feste ed ai banchetti infatti preferiva il lavoro e la meditazione e alla morte dei genitori distribuì tutti i suoi beni ai poveri, si ritirò nel deserto e li cominciò la sua vita di penitente.

Compiuta la sua scelta di vivere come eremita, trascorse molti anni vivendo in un'antica tomba scavata nella roccia, lottando contro le tentazioni del demonio, che molto spesso gli appariva per mostrargli quello che avrebbe potuto fare se foste rimasto nel mondo. A volte il diavolo si mostrava sotto forma di bestia feroce - soprattutto di maiale - allo scopo di spaventarlo; ma a queste provocazioni Antonio rispondeva con digiuni e penitenze, riuscendo sempre a trionfare.

La sua fama di anacoreta (eremita) si diffuse ben presto presso i fedeli, e Antonio, che voleva vivere assolutamente distaccato dal resto del mondo, fu costretto più volte a spostarsi.

Intorno al 311 si recò ad Alessandria per prestare aiuto e conforto ai cristiani perseguitati dall'imperatore Massimiliano; poi si ritirò sul monte Qolzoum, sul mar Rosso, ma dovette tornare ad Alessandria poco tempo dopo per combattere l'eresia ariana, sempre più diffusa nelle zone orientali dell'impero.

Malgrado conducesse una vita dura e piena di privazioni, Antonio fu molto longevo: la morte lo colse infatti all'età di 105 anni, il 17 Gennaio del 355, nel suo eremo sul monte Qolzoum.
Sulla sua tomba, subito oggetto di venerazione da parte dei fedeli, furono edificati una chiesa e un monastero; le sue reliquie nel 635 furono portate a Costantinopoli, e poi sembra che siano state portate in Francia tra il sec IX e il X dove oggi si venerano nella chiesa di Saint Julian, ad Arles.

In Francia, in quel periodo, sorse l'ordine degli "Antoniani" approvato successivamente da papa Urbano II.

La devozione popolare

I riti che si compiono ogni anno in occasione della festa di S. Antonio sono antichissimi e legati strettamente alla vita contadina e fanno di Antonio Abate un vero e proprio "santo" del popolo.
Egli è considerato il protettore contro le epidemie di certe malattie, sia dell'uomo, sia degli animali. E' stato invocato come protettore del bestiame e la sua effigie era collocata sulla porta delle stalle. Il Santo è invocato anche per scongiurare gli incendi, e non a caso il suo nome è legato ad una forma di herpes nota come "fuoco di Sant'Antonio" o "fuoco sacro". Antonio è anche considerato il patrono del fuoco: secondo alcuni riti attorno alla sua figura testimoniano un forte legame con le culture precristiane, soprattutto quella celtica. E' nota infatti l'importanza che rivestiva presso i celti il rituale legato al fuoco come elemento beneaugurante. Nel giorno della sua memoria liturgica, si benedicono le stalle e si portano a benedire gli animali domestici. In alcuni paesi di origine celtica, sant’Antonio assunse le funzioni della divinità della rinascita e della luce, Lug, il garante di nuova vita, a cui erano consacrati cinghiali e maialii. Perciò, in varie opere d’arte, ai suoi piedi c’è un cinghiale.
Patrono di tutti gli addetti alla lavorazione del maiale, vivo o macellato, è anche il patrono di quanti lavorano con il fuoco, come i pompieri, perché guariva da quel fuoco metaforico che era l’herpes zoster.
Ancora oggi il 17 gennaio, specie nei paesi agricoli e nelle cascine, si usano accendere i cosiddetti “focarazzi” o “ceppi” o “falò di sant’Antonio”, che avevano una funzione purificatrice e fecondatrice, come tutti i fuochi che segnavano il passaggio dall’inverno alla imminente primavera. Le ceneri, poi raccolte nei bracieri casalinghi di una volta, servivano a riscaldare la casa e, tramite un’apposita campana fatta con listelli di legno, per asciugare i panni umidi.

Nella chiesa di Chiusa Ferranda domenica 17 gennaio alle ore 10 verrà celebrata la S. Messa guidata dal diacono Massimo, durante la quale verrà benedetto il sale. I fedeli sono invitati a portare con sè un vasetto o un piccolo contenitore per riporre il sale benedetto e portarlo con sè a casa: esso potrà essere utilizzato per insaporire il cibo anche degli animali.

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