Verso il Giubileo 2025: pellegrini di speranza
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- Scritto da Martina Pacini
Pasqua 2024
(Messaggio)
La croce gloriosa
Il quarto evangelo narra della morte di Gesù in croce con un linguaggio che ne sottolinea la signoria e l’esaltazione gloriosa. Per Giovanni il crocifisso non è uno sconfitto; con la sua morte Gesù ha vinto il mondo e lo ha fatto con un atto di totale libertà e obbedienza alla volontà unica del Padre. Con la sua morte di croce Gesù rivela ai suoi un amore “sino alla fine” che non conosce condizioni o limitazioni di sorta. Anche dalla croce Gesù manifesta senza equivoci un amore operoso. Sulla croce Gesù è il Signore che effonde lo Spirito, che costituisce l’inizio della sua Chiesa, che raduna attorno a sé i figli di Dio dispersi e li ricompone in quella unità invocata davanti al Padre (cfr. Gv 17,21). Dalla croce, Gesù effonde la vita per l’umanità tutta attraverso un atto libero di dono che è la sua morte.
Giovanni non intende riferirci solo la descrizione della fine miserevole e drammatica di Gesù, ma interpreta in profondità il senso della sua morte alla luce della Scrittura e della testimonianza fatta di gesti, di parole e di silenzi, che hanno caratterizzato la vita del rabbi di Nazareth in mezzo all’umanità. I gesti e le parole di Gesù incontrano quelli del Padre, fino a delineare i tratti di un’obbedienza perfetta alla sua volontà. La fecondità della sua esistenza consegnata nell’atto supremo della morte in croce si manifesta come sorgente di vita per tutti. È qui che la sua autodonazione raggiunge il vertice, compiendo così il progetto del Padre: la salvezza del mondo (cfr. Gv 3,16).
La scena della morte di Gesù sulla croce narrata dal quarto evangelo è racchiusa in una affermazione decisiva: «È compiuto» (Gv 19,30). Questa è l’ora nella quale Gesù compie le Scritture (cfr. Sal 22,16; 69,22), realizza la missione affidatagli dal Padre in un atteggiamento di umile e lucida obbedienza. Il compimento delle Scritture diviene, allo stesso tempo, pienezza rivelativa dell’opera salvifica del Figlio, che contempla anche la creazione di una nuova comunità di donne discepole presenti presso la croce (cfr. Gv 19,23-27). Egli muore manifestando, senza gridare dolorosamente come ricordano i sinottici, il trionfo dell’ora della gloria in cui il mondo è sottoposto al giudizio della verità. Gesù non è succube degli avvenimenti (cfr. Gv 6,61; 13,1.3; 18,4); al contrario, è lui ad imporre il movimento da vero Signore, proprio come colui che sta al centro dell’evento. Morendo, Gesù vince il mondo con un atto di libertà, che è il dono della sua vita. In questo atto della propria morte Gesù avanza una richiesta: «Ho sete». Come aveva domandato alla donna di Samaria (cfr. Gv 4,7: «Dammi da bere»), così ora, egli chiede l’accoglienza di un amore che l’odio non è riuscito a soffocare. Dopo aver preso l’aceto imbevuto in una spugna e accostatogli alla bocca mediante una verga d’issopo, Gesù esclama: «Compiuto», dichiarando così manifestata la gloria dell’Uomo in tutto uguale a Dio, che all’odio risponde con un atto di amore e il dono di sé. Con la morte di Gesù in croce il credente è posto di fronte all’opera creatrice che giunge al suo compimento inaugurando una nuova umanità. A suggello di quest’opera l’evangelista attrae l’attenzione del lettore sul capo reclinato di Gesù e sulla consegna dello Spirito. Si tratta di un ulteriore gesto che conferma tutta la parola e l’esistenza di Gesù di Nazareth; la sua è stata una vita all’insegna dell’obbedienza libera alla volontà del Padre fino alla morte di croce; è vera eloquenza di un amore senza condizioni e senza confini. L’atto stesso della morte di Gesù, sottolineato dal capo reclinato, è in funzione del dono dello Spirito effuso sulla Chiesa nascente. Infatti, la morte di Gesù non è senza scopo; non è il risultato di un progetto umano violento del quale Gesù diventa succube, nulla potendo contro la cattiveria degli uomini; al contrario, egli muore salvando ogni uomo impossibilitato a trovare salvezza da sé. L’umanità di Gesù, dono di una esistenza fino alla morte, è trasformata in sorgente di vita che effonde lo Spirito, mediante il quale a chiunque cerca la verità è dato di giungere alla pienezza della comunione con Dio.
Questo è un modo altro, per Giovanni, di affermare il mistero della risurrezione di Gesù il crocifisso, vera Pasqua dell’umanità. È lui il Signore con i segni della sua passione che emette il giudizio definitivo sul mondo riportato alla verità di Dio mediante il trionfo della sua misericordia. Colui che è stato trafitto ora diventa l’unica direzione verso la quale lo sguardo di tutti si volge, perché lo riconoscano come il Signore unico. Colui che era inaccessibile nella sua eternità ora diventa colui che Innalzato e Trafitto tutti guardano e dal quale tutti invocano misericordia e vita definitiva.
Questa parola promessa getta una luce nuova sulla morte umana del discepolo trasfigurata dalla morte di Gesù; in lui il discepolo partecipa di quella nuova nascita che lo inserisce nel mondo dell’eterna comunione con il Padre. Andando oltre il dramma del Golgota, il discepolo è chiamato a riflettere sul significato di quella morte di croce, ma anche della sua morte, affinché sia rivelazione di un amore che dona. Carlo Maria Martini, in una meditazione sulla passione del Signore annotava: «Dio amore, bontà, misericordia, si rivela proprio nel linguaggio della croce. La vera onnipotenza è quella capace di annullarsi per amore, di accettare la morte per amore (…). Se non arriviamo qui, a questa contemplazione del Signore che si lascia crocifiggere, la nostra conoscenza di Dio rimarrà sempre una conoscenza “per sentito dire”» (C.M. Martini, Non temiamo la storia, Centro Ambrosiano Documentazione-Piemme, Milano-Casale Monferrato 1992, pp. 83-85).
+Ovidio Vezzoli
vescovo
Diario di un cammino ecclesiale
(La Visita ad limina Apostolorum dei Vescovi dell’Emilia-Romagna)
Al termine dell’esperienza ecclesiale che ha visto la partecipazione dei quattordici Vescovi dell’Emilia-Romagna alla Visita ad limina Apostolorum (Roma, 26 febbraio - 2 marzo 2024) intendo condividere con la comunità cristiana fidentina la particolarità di questo evento ecclesiale a partire da tre prospettive peculiari che hanno tracciato il percorso: le celebrazioni liturgiche, gli incontri con Papa Francesco e i Dicasteri romani, la vita fraterna episcopale.
Secondo le norme del Diritto Canonico ogni Vescovo di una diocesi è tenuto a compiere quella che viene definita nella lingua latina: Visita ad limina Apostolorum. Si tratta, in realtà, di narrare e di condividere con il Vescovo di Roma il cammino di fede e pastorale di quella porzione di Chiesa che è stata affidata alla cura pastorale di un vescovo diocesano. Questa visita normalmente avviene ogni cinque anni; l’ultima effettuata dai vescovi dell’Emilia-Romagna risale ormai a dieci anni orsono (2013). Ogni vescovo diocesano è tenuto a consegnare un mese prima della Visita ad limina una dettagliata, documentata e analitica relazione alla Nunziatura Apostolica in Italia, finalizzata ad illustrare un quadro complessivo del cammino di fede ecclesiale e pastorale di ogni diocesi. La diocesi di Fidenza ha elaborato un dossier di ben 180 pagine grazie al contributo redatto a cura dei Direttori degli Uffici pastorali e dei Vicari episcopali responsabili dei vari settori.
Un primo aspetto peculiare che ha caratterizzato la Visita ad limina Apostolorum è quello relativo alle celebrazioni liturgiche. Infatti, questa esperienza ha contemplato la celebrazione eucaristica dei Vescovi nelle quattro Basiliche fondamentali di Roma: S. Pietro in Vaticano, S. Giovanni in Laterano (antica basilica di S. Salvatore), S. Maria Maggiore, S. Paolo fuori le Mura. Non è stato casuale, pertanto, avviare il cammino partendo dall’Eucaristia celebrata presso il sepolcro dell’apostolo Pietro situato nelle grotte vaticane (26 febbraio). È stato un atto mediante il quale i vescovi hanno confermato il loro impegno di annunciatori dell’Evangelo e di custodi della autentica tradizione della Chiesa fondata sulla confessione di fede del primo degli apostoli; a lui, infatti, Gesù ha affidato il compito di edificare la sua Chiesa (cfr. Mt 16,18-19) e di pascere il suo gregge (cfr. Gv 21,15-19). Nella medesima prospettiva si sono svolte le altre celebrazioni eucaristiche nella chiesa di S. Bartolomeo apostolo all’Isola Tiberina (27 febbraio) dedicata alla memoria dei martiri del XX-XXI secolo, testimoni della fede evangelica in un tempo segnato da violenze, conflitti e persecuzioni contro i discepoli del Signore. La celebrazione in S. Giovanni in Laterano (28 febbraio) ha avuto la sua significazione particolare in quanto questa basilica papale custodisce la prima cattedra del Vescovo di Roma, quale segno di unità della Chiesa cattolica e segno di ortodossia in obbedienza all’unico evangelo di Gesù Cristo. In questa basilica, anticamente dedicata al Santo Salvatore e custode del primo battistero della chiesa di Roma, i vescovi hanno confermato la loro fede in Gesù il Signore e sottolineato l’atteggiamento di obbedienza al Papa che presiede le comunità cristiane della Chiesa universale nella carità. È seguita l’eucaristia celebrata a S. Maria Maggiore (29 febbraio). Si tratta della prima testimonianza in Roma del culto attribuito a Maria, la madre del Signore, dopo il Concilio di Efeso del 431. I Vescovi hanno affidato a Maria, madre della Chiesa, le loro comunità diocesane e il loro ministero pastorale. Infine, nella basilica di S. Paolo fuori le Mura (1° marzo) i vescovi hanno celebrato l’eucaristia sul luogo della memoria testimoniale dell’apostolo Paolo, annunciatore dell’evangelo tra le genti. Qui i Vescovi hanno confermato il loro impegno assiduo per l’evangelizzazione, che costituisce il contenuto unico e la modalità precipua della missione pastorale della Chiesa nel mondo. È stato ribadito a più riprese il fatto che il compito dell’annuncio dell’Evangelo oggi deve essere fondato sulla predicazione e sull’ascolto della Parola, sull’esperienza sacramentale, in particolare dell’Eucaristia e sull’opera della carità che nella Parola e nel mistero eucaristico trova la sua sorgente e l’alimento di ogni azione missionaria della Chiesa.
Il secondo tratto che ha caratterizzato la Visita ad limina Apostolorum è da individuare nella molteplicità e nella ricchezza degli incontri. Anzitutto, l’udienza che Papa Francesco ha riservato ai vescovi dell’Emilia-Romagna in forma privata il 29 febbraio per ben due ore e mezza di colloquio, senza interruzione alcuna. Invitati da Papa Francesco ad assumere lo stile fraterno nella conversazione secondo verità e parrēsìa, l’incontro con i vescovi si è svolto nella forma più autentica di sinodalità, senza ipocrisia o subdole riverenze; ogni vescovo ha avuto la possibilità di esporre a Papa Francesco domande, fatiche e speranze a partire dalla propria esperienza ecclesiale e pastorale, con atteggiamento di devozione filiale e di umile ascolto di quanto Papa Francesco ha avuto la premura di consegnare e condividere con ciascun vescovo, senza disattendere nessuna questione esposta. Il filo conduttore che ha animato il dialogo è stato quello dell’evangelizzazione nella linea tracciata prima da Papa Paolo VI (Evangelii nuntiandi) e poi da Papa Francesco stesso nella Esortazione apostolica Evangelii gaudium, quale impegno e missione inderogabili per la Chiesa nel mondo contemporaneo. Non sono mancate parole di incoraggiamento, di ammonimento e di consolazione con le quali il Vescovo di Roma ha espresso la sua preoccupazione per il forte cambiamento d’epoca in atto nell’umanità, ma senza disperare perché Gesù ha promesso di essere presente accanto ai suoi in ogni tempo, sino alla fine del mondo (cfr. Mt 28,20). Altri incontri hanno scandito la settimana della Visita ad limina Apostolorum, in particolare quelli con i vari Dicasteri romani che lavorano a servizio della Chiesa universale: Comunicazione sociale; Vescovi; Dottrina della Fede; l’incontro con il card. Pietro Parolin Segretario di Stato; Cause dei Santi; Cultura ed Educazione; Servizio per lo Sviluppo umano integrale; Laici-Famiglia-Vita; Istituti di vita consacrata e Società di Vita apostolica; Dicastero per l’Evangelizzazione; Clero; Culto Divino e disciplina dei Sacramenti; Tutela dei minori, persone vulnerabili e vittime di abusi; Segreteria generale per il Sinodo. Per ogni incontro era previsto una relazione introduttiva di un vescovo incaricato del settore coinvolto, il dialogo, la condivisione con il Prefetto del dicastero competente e l’indicazione di alcuni orientamenti pastorali. Ogni incontro si è rivelato molto intenso sia per la ricchezza della condivisione e dei contenuti, sia per la possibilità di delineare uno sguardo di sintesi sulla Chiesa universale.
L’ultima dimensione, non certo minore per importanza, che ha caratterizzato la Visita ad limina Apostolorum si è precisata nell’esperienza di fraternità e di comunione che si è potuta verificare tra i vescovi dell’Emilia-Romagna. La condivisione dei tempi di preghiera, di confronto, di studio, di riflessione e, nondimeno, della mensa ha permesso di respirare un’autentica fraternità episcopale senza formalismi né ipocrisie. Il tempo vissuto insieme è stato un tempo di grazia; ha offerto la possibilità di una conoscenza gli uni degli altri sincera, anche nella condivisione umana e spirituale delle stesse fatiche, delle medesime perplessità, a volte anche delle stanchezze, ma senza che si affievolissero il desiderio e la responsabilità di camminare nella fedeltà all’Evangelo, nella prossimità alle comunità cristiane che ci sono state affidate e nella missione di edificare l’unico corpo vivente di Cristo che è la sua Chiesa.
+ Ovidio Vezzoli
vescovo di Fidenza
Foto: Vatican Media
La Conferenza Episcopale dell’Emilia-Romagna si è riunita in Assemblea il 29 febbraio a Roma, dove si trovava per la Visita ad Limina, e durante i lavori presieduti da Mons. Giacomo Morandi, Presidente Ceer e Vescovo di Reggio Emilia-Guastalla, ha predisposto una dichiarazione circa il fine vita, di cui si riporta il testo.
Nascere, vivere, morire: tre verbi che disegnano la traiettoria dell’esistenza. La persona li attraversa, forte della sua dignità che l’accompagna per tutta la vita: quando nasce, cresce, come quando invecchia e si ammala. Sperimenta forza e vulnerabilità, intimità e vita sociale, libertà e condizionamenti.
Gli sviluppi della medicina e del benessere consentono oggi cure nuove e un significativo prolungamento dell’esistenza. Si profila così la necessità di modalità di accompagnamento e di assistenza permanente verso le persone anziane e ammalate, anche quando non c’è più la possibilità di guarigione, continuando e incrementando l’ampio orizzonte delle “cure”, cioè di forme di prossimità relazionale e mediche.
Alla base di questa esigenza ci sono il valore della vita umana, condizione per usufruire di ogni altro valore, che costruisce la storia e si apre al mistero che la abita, e la dignità della persona, in intrinseca relazione con gli altri e con il mondo che la circonda. Il valore della vita umana si impone da sé in ogni sua fase, specialmente nella fragilità della vecchiaia e della malattia. Proprio lì la società è chiamata ad esprimersi al meglio, nel curare, nel sostenere le famiglie e chi è prossimo ai malati, nell’operare scelte di politiche sanitarie che salvaguardino le persone fragili e indifese, e attuando quanto già è normato circa le cure palliative. Impegno, questo, che qualifica come giusta e democratica la società.
Procurare la morte, in forma diretta o tramite il suicidio medicalmente assistito, contrasta radicalmente con il valore della persona, con le finalità dello Stato e con la stessa professione medica.
La proposta della Regione Emilia-Romagna di legittimare con un decreto amministrativo il suicidio medicalmente assistito, con una tempistica precisa per la sua realizzazione, presumendo di attuare la sentenza della Corte Costituzionale 242/2019, sconcerta quanti riconoscono l’assoluto valore della persona umana e della comunità civile volta a promuoverla e tutelarla.
Anche noi, Vescovi dell’Emilia-Romagna, pellegrini a Roma alle tombe degli Apostoli, vogliamo offrire un nostro contributo, sulla base della condivisa dignità della persona e del valore della vita umana, rivolgendoci non solo ai credenti ma a tutte le donne e gli uomini.
Esprimiamo con chiarezza la nostra preoccupazione e il nostro netto rifiuto verso questa scelta di eutanasia, ben consapevoli delle dolorose condizioni delle persone ammalate e sofferenti e di quanti sono loro legati da sincero affetto. Ma la soluzione non è l’eutanasia, quanto la premurosa vicinanza, la continuazione delle cure ordinarie e proporzionate, la palliazione, e ogni altra cosa che non procuri abbandono, senso di inutilità o di peso a quanti soffrono.
Tale prossimità e le ragioni che la generano hanno radici nell’umanità condivisa, nel valore unico della vita, nella dignità della persona, e trovano sorgente, luce e forza ulteriore in Gesù di Nazareth che, proprio sulla Croce, nella fase terminale della esistenza, ci ha redenti e ci ha donato sua madre, scambiando con Lei, con il discepolo amato e con chi condivideva la pena, parole e un testamento di vita unico, irrinunciabile, non dissimili a quelle confidenze che tanti cari ci hanno lasciato sul letto di morte.
Il suo dolore, crudelmente inferto, accoglie ed assume ogni sofferenza umana, innestandola nel mistero di Pasqua, mistero di Morte e di Risurrezione.
Conferenza Episcopale dell’Emilia-Romagna
Foto: pexels
I quattordici vescovi dell’Emilia-Romagna, guidati dal presidente della Conferenza episcopale regionale (Ceer), monsignor Giacomo Morandi, si trovano a Roma dove si tratterranno fino al 2 marzo, per la visita ad limina apostolorum, cioè alle tombe degli apostoli Pietro e Paolo.
Mercoledì 28 febbraio i presuli, con la partecipazione del laicato e del clero proveniente da alcune Diocesi della Regione, sono stati all’Udienza generale di papa Francesco in Aula Paolo VI. Al pomeriggio hanno concelebrato la Messa nella Basilica di San Giovanni in Laterano. Presenti anche i nostri seminaristi, Vincenzo e Fabrizio.
“Ancora sono un po’ raffreddato, per questo ho chiesto a monsignor Campanelli di leggere la catechesi”. Con queste parole il Papa ha cominciato l’appuntamento, dove è arrivato in carrozzina, invece che camminando con l’ausilio di un bastone, come avviene di solito nell’appuntamento del mercoledì. È la seconda volta che Papa Francesco appare in pubblico, dopo la lieve sindrome influenzale che l’ha colpito nei giorni scorsi e per la quale, a partire da sabato scorso, erano stati annullati in via precauzionale gli impegni in agenda, fatta eccezione per l’Angelus di domenica in piazza San Pietro.
E giovedì 29 febbraio I Vescovi Ceer hanno partecipato all’udienza riservata con il Papa svoltasi nel Palazzo Apostolico dalle ore 9 alle ore 11.30.
Foto di Vatican Media.
Tra l’inizio del cammino sinodale inaugurato tre anni fa da papa Francesco e in previsione dell’anno giubilare del 2025 – due eventi questi, di straordinaria portata ecclesiologica – tutta la Diocesi di Fidenza è stata coinvolta nella preparazione, anzitutto spirituale e in seconda istanza, anche organizzativa, d’un ulteriore momento di grazia: la visita “Ad limina apostolorum”, che si terrà a Roma il 26 febbraio 2024 e a cui saranno convocati tutti i Vescovi dell’Emilia - Romagna in rappresentanza delle rispettive Diocesi.
Di cosa si tratta? Essa è letteralmente la visita ai luoghi degli Apostoli Pietro e Paolo a cui, ogni cinque anni, sono tenuti tutti i Vescovi che, in comunione con la Sede Apostolica, presiedono nella carità e nel servizio alle Chiese particolari loro affidate. Essa è perciò un momento unico per rinsaldare il costitutivo legame, nella carità, tra il Successore dell’Apostolo Pietro, il Papa e i Vescovi in comunione con lui sparsi nel mondo.
Difatti, non c’è singolo Vescovo o insieme di Vescovi che possa governare Chiese particolari senza prestare una sentita obbedienza e un affetto sincero al Successore di Pietro. Da questo punto di vista, la visita “ad limina” non è un mero atto burocratico, ma un vero e proprio pellegrinaggio, volto alla venerazione delle tombe degli Apostoli Pietro e Paolo e all’incontro personale dei Vescovi con il Romano Pontefice. A tenore di quanto è dichiarato nel Direttorio per la visita “ad limina Apostolorum” dell’allora Congregazione (oggi, Dicastero) per i Vescovi, con la visita “ad limina” ciascun Vescovo, quale principio e fondamento visibile dell'unità nella Chiesa particolare affidata al proprio ministero pastorale, ha il dovere di “fornire al Santo Padre una dettagliata relazione, corroborata da informazioni autentiche ed autorevoli, su tutto ciò che, nell’arco temporale degli ultimi cinque anni, ha vissuto la propria Chiesa particolare: problemi, iniziative, collaborazioni, difficoltà e risultati conseguiti”: sia per quanto attiene al versante pastorale che per quanto concerne l’ambito amministrativo.
Per consegnare al Papa questo quadro complessivo sullo stato della Diocesi, ogni Vescovo si sarà previamente avvalso del coinvolgimento e della piena collaborazione dei suoi più stretti collaboratori. Già da ora sarebbe bello, giusto e doveroso poter pregare insieme, nelle nostre comunità, con quest’intenzione particolare; invocare quell’irrinunciabile unità nella Chiesa, in vista della quale anche la stessa visita “ad limina” esercita un ruolo tutt’altro che marginale. A tal fine, potremmo trovare un valido sostegno anche attraverso una meditazione delle parole che troviamo nella Preghiera Eucaristica V/D, La Chiesa in cammino verso l’unità, all’interno del Messale Romano, adattandole alla realtà ecclesiale concreta e al momento storico precipuo che stiamo attraversando: “Fa' che la Chiesa di Fidenza si rinnovi nella luce del Vangelo. Rafforza il vincolo dell'unità fra i laici e i presbiteri, fra i presbiteri e il nostro Vescovo Ovidio, fra i Vescovi e il nostro Papa Francesco; in un mondo lacerato da discordie la tua Chiesa risplenda segno profetico di unità e di pace”.
Don Alessandro Frati
Quaresima 2024
“Benedire e non maledire”
L’apostolo Paolo concludendo la sua lettera ai cristiani di Roma ci consegna un appassionato ammonimento, vera traccia sapienziale per il cammino ecclesiale nel tempo santo della Quaresima orientato alla Pasqua del Signore: «La carità non abbia finzioni (…). Non siate pigri nello zelo (…); servite il Signore (…). Siate lieti nella speranza, forti nella tribolazione, perseveranti nella preghiera, solleciti per le necessità dei fratelli, premurosi nell’ospitalità (…). Benedite e non maledite» (Rm 12,9-13). Questo è il principio evangelico che soggiace al documento del Dicastero della Dottrina della Fede (Fiducia supplicans, 18 dicembre 2023) relativo al senso pastorale delle benedizioni. Nel testo si prevede la «possibilità di benedire le coppie in situazioni irregolari e le coppie dello stesso sesso, senza convalidare ufficialmente il loro status o modificare in alcun modo l’insegnamento perenne della Chiesa sul matrimonio». Inutile ricordare la mole di polemiche pretestuose e gratuite che la Dichiarazione stessa ha suscitato. È necessario, però, procedere oltre la grettezza espressa da coloro che nemmeno hanno letto integralmente il testo e rendere ragione della verità e della bontà del documento senza istruire in forma pregiudiziale un processo alle intenzioni. Sempre l’apostolo Paolo ci rammenta in 1Tm 4,4-5 che: «Tutto ciò che è stato creato da Dio è buono e nulla è da scartarsi, quando lo si prende con rendimento di grazie perché esso viene santificato dalla parola di Dio e dalla preghiera». Riferendosi esplicitamente a Gen 1,31 la testimonianza dell’apostolo non solo dichiara l’originaria bontà e bellezza della creazione scaturita dall’Eterno e per il quale tutto è «molto buono», ma afferma che tutta la creazione mantiene una intrinseca verità proprio in forza della preghiera di benedizione davanti a Dio. Usufruendo della creazione come di un dono e non come di una proprietà esclusiva, il credente innalza a Dio il rendimento di grazie che trova nella Parola il fondamento originario. L’utilizzo dei beni della creazione nella concezione ebraica e cristiana della benedizione rievoca il rendimento di grazie delle creature davanti a Dio provvidente. La maledizione, al contrario, è un atto di radicale infedeltà, di contraddizione della bontà originaria in Dio e peccato di idolatria. A questo proposito una testimonianza rabbinica risulta eloquente: «Insegnarono i nostri maestri: ‘Resta vietato all’uomo di godere di qualche cosa che è di questo mondo, senza dire una benedizione; chi gode dei beni di questo mondo, senza dire una benedizione, commette in atto di infedeltà» (Talmud B. Berakôth 35a).
Riassumendo alcuni tratti fondamentali che la benedizione, nella tradizione giudaica e cristiana, rivela quando viene espressa davanti a Dio si potrebbe affermare, anzitutto, che la benedizione è dichiarazione dell’orante a rinunciare a qualsiasi diritto di proprietà sulle cose e sulle persone. È il riconoscimento della gratuità, dell’impossibilità a manipolare la creazione; è la rinuncia alla propria volontà di potenza instaurando con la realtà una relazione che sola permette di scorgerne la profonda identità di dono consegnato con annessa la responsabilità di custodire il dono stesso.
In secondo luogo, la benedizione rivela a chi appartiene la vita. In questa prospettiva la benedizione lascia trasparire la dimensione di una confessione di fede mediante la quale si dichiara la signoria di Dio sul cosmo e sulla storia. L’atto del benedire permette, quindi, di entrare in quell’orizzonte di sapienza della realtà per cui si coglie la verità della Scrittura quando afferma: «La terra è mia e voi siete presso di me come forestieri e pellegrini» (Lv 25,23; cfr. Dt 26,1-11). Confessare che la terra è di Dio significa riconoscere che tutti i suoi beni raggiungono il vertice di significato in un orizzonte di gratuità alieno da ogni forma di tentazione dispotica o di gestione egoistica. In tal senso la benedizione davanti a Dio è azione conseguente al riconoscere che lui per primo ha benedetto le sue creature circondandole del suo amore.
In terzo luogo, la benedizione esplicita la destinazione universale della creazione. Il riconoscere che tutto è di Dio contiene in sé l’intrinseca destinazione della realtà in vista della condivisione. Quando tale processo viene distorto, falsato o misconosciuto, allora nasce l’azione violenta del possedimento che porta irrimediabilmente alla sua perdita. L’usufruire della realtà creata con un atteggiamento di bramosia non permette alla realtà stessa di esprimere l’intrinseca bellezza e bontà originaria che porta in sé.
Infine, la benedizione dichiara che Dio ha affidato all’uomo «il giardino di Eden perché lo coltivasse e custodisse» (Gen 2,15); ciò è avvenuto perché è insisto nel suo progetto di un amore eterno e fedele. L’atto del benedire davanti a Dio evidenzia senza equivoci la riconsegna libera di un dono gratuitamente ricevuto. In questa dimensione il credente esercita il suo sacerdozio celebrando la liturgia della vita.
Ioannis Zizioulas, rifacendosi all’esperienza della liturgia eucaristica nella tradizione orientale, rilegge il momento della presentazione dei doni, in una illuminata sintesi interpretativa del ministero dell’uomo nel creato, che davanti a Dio ‘offre’ il mondo: «Tutti i fedeli che vanno alla liturgia portano con sé il mondo [...]. Anziché far dimenticare ai fedeli i loro bisogni quotidiani la liturgia domanda loro di portarli in chiesa e di pregare [...]. Questo grande scandalo per certe anime pie è un’azione che svela il compiersi durante la liturgia di un cammino verso la santa Tavola (l’altare), di un mondo così com’è [...]. Questa accettazione del mondo da parte della liturgia indica che realmente il mondo non ha mai cessato di essere mondo di Dio». Benedire e non maledire significa, pertanto, imparare a riconoscere le tracce della presenza di Dio provvidente nella nostra storia e sui volti delle persone che incontriamo; esse sono il riflesso del volto del Signore e manifestazione della bontà custodita nel cuore di tutti quelli che lo cercano.
+ Ovidio Vezzoli
Vescovo di Fidenza
La Lettera pastorale 2023-2024 del Vescovo Ovidio
Con il numero 29 in uscita oggi il nostro settimanale diocesano sospende le pubblicazioni: ritornerà nelle case degli abbonati venerdì 2 settembre. Con l’occasione ricordiamo a coloro che non hanno ancora rinnovato l’abbonamento per il presente anno che possono farlo attraverso le modalità presenti sul nostro sito web a questo link: (http://www.ilrisvegliofidenza.it/index.php/abbonamenti)
Gli uffici della Curia Vescovile di Fidenza saranno chiusi dal 31 luglio al 16 agosto: riapertura il 17 agosto.
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Quando un regime dittatoriale, come quello fascista, giunge al suo disfacimento, a provocarlo non sono tanto le sconfitte militari quanto la perdita definitiva di ogni fiducia da parte della popolazione, che misura sulla propria vita il divario tra la realtà e le dichiarazioni trionfalistiche.
Si apre, in quei giorni, una transizione, a colmare la quale la tradizionale dirigenza monarchica palesa tutta la sua pochezza, dopo il colpevole tradimento delle libertà garantite dallo Statuto Albertino. In quel luglio 1943, nel momento in cui il suolo della Patria viene invaso dalle truppe ancora nemiche, mentre il Terzo Reich si trasforma rapidamente da alleato in potenza occupante, entrano in gioco le forze sane della nazione, oppresse nel ventennio della dittatura. La lunga vigilia coltivata da coloro che non si riconoscevano nel regime trova sbocco, anche intellettuale, nella preparazione del “dopo”, del momento in cui l’Italia sarebbe nuovamente risorta alla libertà, con la successiva scelta dell’ordinamento repubblicano.
Trova radice in questo l’esercizio di Camaldoli, voluto dal Movimento laureati cattolici e dall’Icas, l’Istituto cattolico attività sociali. Siamo nel pieno di una svolta: nel maggio 1943 le truppe dell’Asse in Tunisia si arrendono, ponendo fine alla campagna dell’Africa del Nord; il 10 luglio avviene lo sbarco delle truppe Usa in Sicilia. Il 19 luglio l’aviazione alleata dà avvio al primo bombardamento su Roma per colpire lo scalo ferroviario di San Lorenzo, con migliaia le vittime. Il 24 luglio sarà lo stesso Gran Consiglio del fascismo a porre termine all’avventura di Mussolini. Il convegno di Camaldoli si conclude il giorno precedente, mostrando di aver saputo avvertire il momento cruciale della svolta della storia nazionale.
Oggi possiamo cogliere il valore della riflessione avviata sul futuro dell’Italia e lo sforzo di elaborazione proposto in quei frangenti dai circoli intellettuali e politici che non si erano arresi alla dittatura. Dal cosiddetto Codice di Camaldoli, al progetto di Costituzione confederale europea e interna di Duccio Galimberti e Antonino Repaci, all’abbozzo di Silvio Trentin per un’Italia federale nella Repubblica europea, alla Dichiarazione di Chivasso dei rappresentanti delle popolazioni alpine, al Manifesto di Ventotene di Altiero Spinelli, Eugenio Colorni ed Ernesto Rossi, alle “idee ricostruttive della Democrazia Cristiana”, che De Gasperi aveva appena fatto circolare, non mancano sogni e progetti lungimiranti per fare dell’Italia un Paese libero e prospero in un’Europa pacificata.
A settantacinque anni dall’entrata in vigore della Costituzione della Repubblica è compito prezioso tornare sulle riflessioni che hanno contribuito alla sua formazione e alle figure che hanno avuto ruolo propulsivo in quei frangenti. Ecco allora che il testo “Per la comunità cristiana. Principi dell’ordinamento sociale”, dispiega tutta la sua forza, sia come tappa di maturazione di quello che sarà un impegno per la nuova Italia da parte del movimento cattolico, sia come ispirazione per il patto costituzionale che, di lì a poco, vedrà impegnati nella redazione le migliori energie del Paese, con il contributo, fra gli altri, non a caso, di alcuni fra i redattori di Camaldoli.
Occorreva partire, anzitutto, dal ripristino della legalità, violentata dal fascismo, riconosciuta persino nell’ordine del giorno Grandi al Gran Consiglio, con l’esplicita indicazione dell’esigenza del “necessario immediato ripristino di tutte le funzioni statali”, dopo una guerra che il popolo italiano non aveva sentita “sua”, con aggravata “responsabilità fascista”.
Da Camaldoli vengono orientamenti basilari, che riscontriamo oggi nel nostro ordinamento. Anzitutto la affermazione della dignità della persona e del suo primato rispetto allo Stato - con il rifiuto di ogni concezione assolutistica della politica - da cui deriva il rispetto del ruolo e delle responsabilità della società civile. Di più, sulla spinta di un organico aggiornamento della Dottrina sociale della Chiesa cattolica, emerge la funzione della comunità politica come garante e promotrice dei valori basilari di uguaglianza fra i cittadini e di promozione della giustizia sociale fra di essi.
Si identifica poi, con determinazione, il principio della pace: “deve abbandonarsi il funesto principio che i rapporti internazionali siano rapporti di forza, che la forza crei il diritto…”. Occorre “la creazione di un vero e non fittizio o formale ordine giuridico che subordini o conformi la politica degli Stati alla superiore esigenza della comune vita dei popoli”.
Vi è ragione di essere ben orgogliosi, guardando ai Padri fondatori del Codice di Camaldoli, per il segno che hanno saputo imprimere al futuro della società italiana, anche sul terreno della libertà di coscienza per ogni persona, descritta, al paragrafo 15, come “esigenza da tutelare fino all’estremo limite delle compatibilità con il bene comune”.
Il Cardinale Matteo Zuppi, nella sua lettera alla Costituzione, due anni or sono, riprendendo una considerazione del costituente Giuseppe Dossetti, iniziava così: “Hai quasi 75 anni, ma li porti benissimo! Ti voglio chiedere aiuto, perché siamo in un momento difficile e quando l’Italia, la nostra patria, ha problemi, sento che abbiamo bisogno di te per ricordare da dove veniamo e per scegliere da che parte andare…”. Non vi sono parole migliori.
Sergio Mattarella
Presidente della Repubblica
Foto: Ufficio per la Stampa e la Comunicazione della Presidenza della Repubblica
Domenica 16 luglio 2017 - Domenica 16 luglio 2023.
Grazie Vescovo Ovidio!
«In cammino sotto la guida dello Spirito»
La vita cristiana si precisa, senza confusione, come vita in Cristo e vita nello Spirito santo. Si tratta di un cammino di lenta maturazione, di sequela dietro al Signore unico seguendo le sue tracce (cfr. 1Pt 2,21) e sotto la guida dello Spirito (cfr. Gal 5,16.25) che ci concede, in Cristo, di avere comunione con Dio Padre (cfr. Ef 2,18). In particolare, l’azione dello Spirito nella vita dei discepoli del Signore si esprime in una molteplice attività che potremmo riassumere attorno a quanto l’evangelo stesso ci documenta.
La prima azione dello Spirito, anzitutto, è quella di generare uomini e donne ad essere figli di Dio ovvero uomini e donne spirituali, che conoscono e hanno il pensiero di Cristo. Così il credente è reso dimora di Dio, tempio dello Spirito (cfr. 1Cor 3,16; Rm 8,9), ma anche sacerdote chiamato ad offrire la liturgia della vita come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio (cfr. Rm 12,1).
In secondo luogo, lo Spirito intercede nel cristiano. È lui che suggerisce come pregare e che cosa domandare davanti a Dio, perché, annota Paolo, noi nemmeno sappiamo che cosa sia conveniente chiedere (cfr. Rm 8,26-27). Vero maestro interiore degli umili pellegrini dell’assoluto, lo Spirito insegna ai discepoli l’arte difficile della preghiera, li inizia all’ascolto della Parola e li conduce a fare della propria vita un ’amen davanti al Signore. È lo Spirito che rende il cuore del discepolo ‘ascoltante’ (cfr. 1Re 3,9) ovvero sottomesso all’Unico che parla e pone sulle sue labbra l’invocazione di una rinnovata pentecoste per la chiesa e per l’umanità: «Vieni, Signore» (Ap 22,17), ma anche la supplica che non conosce paura e angoscia e si volge a Dio chiamandolo «Abba’, Padre» (cfr. Rm 8,15; Gal 4,6).
In terzo luogo, lo Spirito rende testimoni (cfr. Lc 24,48-49; Gv 15,26-27). E ciò avviene mediante l’intelligenza delle Scritture che egli mette in noi come dono, affinché possiamo discernere nelle lettere morte della Bibbia, la Parola vivificante del Signore (cfr. Eb 4,12). Questo rende il discepolo servo della Parola con la vita. Lo Spirito rende testimoni i credenti ravvivando in essi la memoria della pasqua del Signore ossia il memoriale del giorno della Domenica quale esperienza centrale della vita cristiana, in cui l’unica mensa della Parola e dell’Eucaristia si offre come tavola alla quale il credente è convocato per mangiare e riprendere forza nel cammino. Soprattutto, lo Spirito rende il discepolo testimone senza ipocrisia donandogli il coraggio (parrēsia) di non vergognarsi dell’evangelo, di non temere le potenze effimere del mondo, di non preparare prima la sua difesa (cfr. Mt 10,19-20) secondo calcoli di convenienze, ma di essere testimone della risurrezione, orientando alle realtà ultime ed eterne. L’interminabile schiera dei martiri di ieri e di oggi per la causa di Gesù è eloquente narrazione della potenza dello Spirito, che non emette giudizi di condanna, ma che si fa appello alla conversione per trovare misericordia e perdono.
Infine, lo Spirito è dispensatore dei doni in vista dell’edificazione dell’unico corpo del Signore che è la chiesa (cfr. 1Cor 12,4 ss.). Gualtiero di S. Vittore annota: «Lo Spirito agisce nella mente dando l’intelligenza, agisce nel cuore dando l’amore, agisce in tutto il corpo dando la vita, agisce nelle singole membra dando la forza: l’intelligenza contro l’ignoranza, l’amore contro l’egoismo, la vita contro la morte, la forza contro la debolezza» (Discorso III, 1, in CCCM 30, p. 27). La molteplicità e ricchezza dei doni ordinati dallo Spirito nel corpo ecclesiale non contemplano possibilità di concorrenza, di invidia e di gelosia. Commenta Agostino: «Se ami, ciò che possiedi non è poca cosa. Se tu ami l’unità, tutto ciò che in essa è posseduto da qualcuno è posseduto anche da te. Bandisci l’invidia e sarà tuo ciò che è mio, e se io bandisco l’invidia sarà mio ciò che tu possiedi. L’invidia separa, la carità unisce». (Commento a Giovanni 32,8, in CCSL 36, p. 304)
Attorno al tema dello Spirito si gioca molto della qualità della nostra vita di fede personale ed ecclesiale. È lo Spirito, infatti, che ci conduce a scorgere nella Parola, nell’Eucaristia e nella Chiesa l’unico corpo del Signore in atto di dono ai suoi. Se ciò è vero, allora significa che quando la centralità dell’azione dello Spirito di verità è offuscata, si procede alla deriva verso tre rischi fondamentali.
Anzitutto, l’assolutizzazione della Scrittura. Senza la sapienza dello Spirito si opera una lettura fondamentalistica, aggressiva nei confronti del mondo esterno, incapace di dialogo e soprattutto di misericordia. L’ascolto delle Scritture diventa, allora, motivo di conflitto, di distanza, di giudizio e non di comunione. In secondo luogo, l’assolutizzazione dell’esperienza liturgica e sacramentale. Senza la sapienza dello Spirito si procede verso il cerimonialismo, verso il privilegio dell’emozionale, del miracolistico e dello spontaneismo celando autentiche patologie umane e spirituali. Infine, l’assolutizzazione dell’elemento ecclesiologico, che si ritraduce in una ‘nevrosi pastorale’, che si consuma nell’attivismo senza sosta, sostituendo il primato dell’evangelizzazione con strategie momentanee che rincorrono i criteri esclusivi dell’efficienza.
Suona, dunque, anche per noi l’invito alla sapiente vigilanza che ci rivolge la parola vivente del Signore; da un lato, l’esortazione del risorto che, rivolgendosi alle sette chiese dell’Apocalisse, conclude: «Chi ha orecchio ascolti ciò che lo Spirito dice alle chiese» (Ap 2,7); dall’altro, si fa concreto l’ammonimento di Paolo: «Non spegnete lo Spirito» (1Ts 5,19).
+ Ovidio Vezzoli
vescovo di Fidenza
«Niente è più come prima!». Questa affermazione compare da tempo sulle labbra di molti nascondendo dietro di sé una forma di rassegnazione e, al contempo, di nostalgia davanti all’ineluttabilità degli avvenimenti a livello nazionale e mondiale che ci sovrastano e nei confronti dei quali sperimentiamo tutta la nostra inadeguatezza e impossibilità a cambiarne l’orientamento. Da un lato, dunque, l’espressione «Niente è più come prima!» è giustificata dal corso degli eventi che interpellano la vita di ciascuno e i cui nomi sono molteplici: la congiuntura economica e sociale, le promesse elettorali puntualmente smentite, la presenza di conflitti bellici che nella loro complessità si profilano senza soluzione a breve termine, gli strascichi della pandemia nella quotidianità della vita delle persone, una aggressività verbale e fisica mai conosciuta prima, un inaspettato e meschino stato di conflittualità dentro e fuori la comunità ecclesiale. In questa prospettiva il «Niente è più come prima!» registra un dato di fatto davanti al quale non ci si può sottrarre né avviare un processo di rimozione come se nulla fosse accaduto; ciò si tramuterebbe solo in un grave atto di irresponsabilità, come del resto è stato ampiamente dimostrato dal patetico slogan «Andrà tutto bene!». D’altro canto, dichiarare che «Niente è più come prima!» può presentarsi come una opportunità a partire dalla quale è possibile ricominciare imparando con sapienza ciò che la storia di questo tempo ci ha insegnato. Se è vero che la storia è maestra di vita c’è solo da sperare che essa abbia a trovare alunni umili, obbedienti e aperti alla fatica del pensiero, rifuggendo da ogni omologazione di un linguaggio ovvio, logoro e scontato, incapace di lasciare una traccia.
È a questo punto che si innesta in modo pertinente e singolare l’annuncio evangelico e cristiano dell’evento della morte e risurrezione di Gesù di Nazareth, il Figlio di Dio, che per la sua potenza ha sconfitto ogni forma di morte, ha fatto rifiorire il deserto dell’umanità affranta infondendo speranza nuova e ha inaugurato il trionfo della vita definitiva. L’apostolo Paolo, in tal senso, scrivendo alla comunità discepola dell’evangelo, che è in Colossi, lo ha ribadito in modo illuminante ed efficace: «Se, dunque, siete risorti con Cristo cercate le cose di lassù, dove si trova Cristo assiso alla destra di Dio; pensate alle cose di lassù, non a quelle della terra» (Col 3,1-2). L’ammonimento dell’apostolo non si presenta come un invito a fuggire dalle responsabilità che la storia ci affida, bensì a prospettare un orizzonte nuovo dal quale ripartire e discernere l’umano che ci appartiene. L’evento della morte e della risurrezione del Signore ha cambiato il volto della storia dell’umanità e veramente «Niente è più come prima!». Il cammino dei credenti e non è stato coinvolto in un mutamento radicale rivelatore di senso, che conduce a discernere il segno del tempo con lo sguardo di Dio misericordioso e compassionevole, fedele alle promesse della sua Parola.
Indirizzandosi alla comunità cristiana che è in Corinto già attorno al 52 d.C., Paolo ha cristallizzato la prima formulazione del “credo” storico evangelico in questa espressione: «Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture, fu sepolto ed è risuscitato il terzo giorno secondo le Scritture e che apparve a Cefa e quindi ai Dodici» (1Cor 15,3-5). L’affermazione del nucleo fondamentale della fede cristiana porta Paolo a concludere che «se Cristo non è risuscitato, allora è vana la nostra predicazione ed è vana anche la vostra fede. Noi, poi, risultiamo falsi testimoni di Dio» (1Cor 15,14-15). Pertanto, «Niente è più come prima!» diventa una dichiarazione evangelica che rinvigorisce la speranza cristiana; essa è profezia di un cammino rinnovato di vita; è appello a riprendere la via evangelica al fine di lasciarsi incontrare da Gesù il crocifisso e risorto dai morti, nelle Scritture spiegate e nel pane spezzato, nella Parola e nell’Eucaristia, fondamenta e ragioni ultime della missione evangelizzatrice della Chiesa nel mondo.
«Niente è più come prima!» non diventa lo slogan di una speranza illusoria e inconsistente, ma appello a ripartire dal Signore al quale appartengono le nostre vite, affinché l’umanità non smarrisca l’unico necessario che le riconsegna il senso autentico del vivere e del lottare perché la vita sia il sigillo prezioso impresso sul volto di una umanità rinnovata nell’amore. «Niente è più come prima!», alla luce dell’evento della risurrezione di Gesù di Nazareth non significa voltare pagina disattendendo la lezione del passato. Al contrario, l’affermazione si presenta come atto di assunzione di responsabilità per tutti, senza delega alcuna, affinché ogni agire concorra all’edificazione dell’unico corpo vivente del Signore, che è la sua Chiesa; essa è luogo di fraternità universale, esperienza di comunione priva di pregiudizi culturali, etnici e religiosi, tavola di dialogo e di ricerca della verità e della bellezza della vita in Cristo, nostra Pasqua di risurrezione.
+ Ovidio Vezzoli
Vescovo di Fidenza
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