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E' iniziata la Visita ad Limina Apostolorum per i vescovi dell'Emilia Romagna

E' iniziata con la s. Messa celebrata lunedì 26 febbraio dai Vescovi dell'Emilia Romagna nelle Grotte della Basilica di San Pietro alla "Confessione di San Pietro" la visita ad limina per i presuli della regione.
 
L'udienza dei Vescovi con il Papa è stata rinviata perché persiste, come ha reso noto la Sala Stampa della Santa Sede, la lieve influenza del Santo Padre.
 
 
Foto: ©Vatican Media.

I vescovi dell'Emilia Romagna e la visita ad limina apostolorum dal 26 febbraio

Tra l’inizio del cammino sinodale inaugurato tre anni fa da papa Francesco e in previsione dell’anno giubilare del 2025 – due eventi questi, di straordinaria portata ecclesiologica – tutta la Diocesi di Fidenza è stata coinvolta nella preparazione, anzitutto spirituale e in seconda istanza, anche organizzativa, d’un ulteriore momento di grazia: la visita “Ad limina apostolorum”, che si terrà a Roma il 26 febbraio 2024 e a cui saranno convocati tutti i Vescovi dell’Emilia - Romagna in rappresentanza delle rispettive Diocesi.

Di cosa si tratta? Essa è letteralmente la visita ai luoghi degli Apostoli Pietro e Paolo a cui, ogni cinque anni, sono tenuti tutti i Vescovi che, in comunione con la Sede Apostolica, presiedono nella carità e nel servizio alle Chiese particolari loro affidate. Essa è perciò un momento unico per rinsaldare il costitutivo legame, nella carità, tra il Successore dell’Apostolo Pietro, il Papa e i Vescovi in comunione con lui sparsi nel mondo.

Difatti, non c’è singolo Vescovo o insieme di Vescovi che possa governare Chiese particolari senza prestare una sentita obbedienza e un affetto sincero al Successore di Pietro. Da questo punto di vista, la visita “ad limina” non è un mero atto burocratico, ma un vero e proprio pellegrinaggio, volto alla venerazione delle tombe degli Apostoli Pietro e Paolo e all’incontro personale dei Vescovi con il Romano Pontefice. A tenore di quanto è dichiarato nel Direttorio per la visita “ad limina Apostolorum” dell’allora Congregazione (oggi, Dicastero) per i Vescovi, con la visita “ad limina” ciascun Vescovo, quale principio e fondamento visibile dell'unità nella Chiesa particolare affidata al proprio ministero pastorale, ha il dovere di “fornire al Santo Padre una dettagliata relazione, corroborata da informazioni autentiche ed autorevoli, su tutto ciò che, nell’arco temporale degli ultimi cinque anni, ha vissuto la propria Chiesa particolare: problemi, iniziative, collaborazioni, difficoltà e risultati conseguiti”: sia per quanto attiene al versante pastorale che per quanto concerne l’ambito amministrativo.

Per consegnare al Papa questo quadro complessivo sullo stato della Diocesi, ogni Vescovo si sarà previamente avvalso del coinvolgimento e della piena collaborazione dei suoi più stretti collaboratori. Già da ora sarebbe bello, giusto e doveroso poter pregare insieme, nelle nostre comunità, con quest’intenzione particolare; invocare quell’irrinunciabile unità nella Chiesa, in vista della quale anche la stessa visita “ad limina” esercita un ruolo tutt’altro che marginale. A tal fine, potremmo trovare un valido sostegno anche attraverso una meditazione delle parole che troviamo nella Preghiera Eucaristica V/D, La Chiesa in cammino verso l’unità, all’interno del Messale Romano, adattandole alla realtà ecclesiale concreta e al momento storico precipuo che stiamo attraversando: “Fa' che la Chiesa di Fidenza si rinnovi nella luce del Vangelo. Rafforza il vincolo dell'unità fra i laici e i presbiteri, fra i presbiteri e il nostro Vescovo Ovidio, fra i Vescovi e il nostro Papa Francesco; in un mondo lacerato da discordie la tua Chiesa risplenda segno profetico di unità e di pace”.

Don Alessandro Frati

"Benedire e non maledire": il messaggio del vescovo Ovidio per la Quaresima

Quaresima 2024

“Benedire e non maledire”

L’apostolo Paolo concludendo la sua lettera ai cristiani di Roma ci consegna un appassionato ammonimento, vera traccia sapienziale per il cammino ecclesiale nel tempo santo della Quaresima orientato alla Pasqua del Signore: «La carità non abbia finzioni (…). Non siate pigri nello zelo (…); servite il Signore (…). Siate lieti nella speranza, forti nella tribolazione, perseveranti nella preghiera, solleciti per le necessità dei fratelli, premurosi nell’ospitalità (…). Benedite e non maledite» (Rm 12,9-13). Questo è il principio evangelico che soggiace al documento del Dicastero della Dottrina della Fede (Fiducia supplicans, 18 dicembre 2023) relativo al senso pastorale delle benedizioni. Nel testo si prevede la «possibilità di benedire le coppie in situazioni irregolari e le coppie dello stesso sesso, senza convalidare ufficialmente il loro status o modificare in alcun modo l’insegnamento perenne della Chiesa sul matrimonio». Inutile ricordare la mole di polemiche pretestuose e gratuite che la Dichiarazione stessa ha suscitato. È necessario, però, procedere oltre la grettezza espressa da coloro che nemmeno hanno letto integralmente il testo e rendere ragione della verità e della bontà del documento senza istruire in forma pregiudiziale un processo alle intenzioni. Sempre l’apostolo Paolo ci rammenta in 1Tm 4,4-5 che: «Tutto ciò che è stato creato da Dio è buono e nulla è da scartarsi, quando lo si prende con rendimento di grazie perché esso viene santificato dalla parola di Dio e dalla preghiera». Riferendosi esplicitamente a Gen 1,31 la testimonianza dell’apostolo non solo dichiara l’originaria bontà e bellezza della creazione scaturita dall’Eterno e per il quale tutto è «molto buono», ma afferma che tutta la creazione mantiene una intrinseca verità proprio in forza della preghiera di benedizione davanti a Dio. Usufruendo della creazione come di un dono e non come di una proprietà esclusiva, il credente innalza a Dio il rendimento di grazie che trova nella Parola il fondamento originario. L’utilizzo dei beni della creazione nella concezione ebraica e cristiana della benedizione rievoca il rendimento di grazie delle creature davanti a Dio provvidente. La maledizione, al contrario, è un atto di radicale infedeltà, di contraddizione della bontà originaria in Dio e peccato di idolatria. A questo proposito una testimonianza rabbinica risulta eloquente: «Insegnarono i nostri maestri: ‘Resta vietato all’uomo di godere di qualche cosa che è di questo mondo, senza dire una benedizione; chi gode dei beni di questo mondo, senza dire una benedizione, commette in atto di infedeltà» (Talmud B. Berakôth 35a).

Riassumendo alcuni tratti fondamentali che la benedizione, nella tradizione giudaica e cristiana, rivela quando viene espressa davanti a Dio si potrebbe affermare, anzitutto, che la benedizione è dichiarazione dell’orante a rinunciare a qualsiasi diritto di proprietà sulle cose e sulle persone. È il riconoscimento della gratuità, dell’impossibilità a manipolare la creazione; è la rinuncia alla propria volontà di potenza instaurando con la realtà una relazione che sola permette di scorgerne la profonda identità di dono consegnato con annessa la responsabilità di custodire il dono stesso.

In secondo luogo, la benedizione rivela a chi appartiene la vita. In questa prospettiva la benedizione lascia trasparire la dimensione di una confessione di fede mediante la quale si dichiara la signoria di Dio sul cosmo e sulla storia. L’atto del benedire permette, quindi, di entrare in quell’orizzonte di sapienza della realtà per cui si coglie la verità della Scrittura quando afferma: «La terra è mia e voi siete presso di me come forestieri e pellegrini» (Lv 25,23; cfr. Dt 26,1-11). Confessare che la terra è di Dio significa riconoscere che tutti i suoi beni raggiungono il vertice di significato in un orizzonte di gratuità alieno da ogni forma di tentazione dispotica o di gestione egoistica. In tal senso la benedizione davanti a Dio è azione conseguente al riconoscere che lui per primo ha benedetto le sue creature circondandole del suo amore.

In terzo luogo, la benedizione esplicita la destinazione universale della creazione. Il riconoscere che tutto è di Dio contiene in sé l’intrinseca destinazione della realtà in vista della condivisione. Quando tale processo viene distorto, falsato o misconosciuto, allora nasce l’azione violenta del possedimento che porta irrimediabilmente alla sua perdita. L’usufruire della realtà creata con un atteggiamento di bramosia non permette alla realtà stessa di esprimere l’intrinseca bellezza e bontà originaria che porta in sé.

Infine, la benedizione dichiara che Dio ha affidato all’uomo «il giardino di Eden perché lo coltivasse e custodisse» (Gen 2,15); ciò è avvenuto perché è insisto nel suo progetto di un amore eterno e fedele. L’atto del benedire davanti a Dio evidenzia senza equivoci la riconsegna libera di un dono gratuitamente ricevuto. In questa dimensione il credente esercita il suo sacerdozio celebrando la liturgia della vita.

Ioannis Zizioulas, rifacendosi all’esperienza della liturgia eucaristica nella tradizione orientale, rilegge il momento della presentazione dei doni, in una illuminata sintesi interpretativa del ministero dell’uomo nel creato, che davanti a Dio ‘offre’ il mondo: «Tutti i fedeli che vanno alla liturgia portano con sé il mondo [...]. Anziché far dimenticare ai fedeli i loro bisogni quotidiani la liturgia domanda loro di portarli in chiesa e di pregare [...]. Questo grande scandalo per certe anime pie è un’azione che svela il compiersi durante la liturgia di un cammino verso la santa Tavola (l’altare), di un mondo così com’è [...]. Questa accettazione del mondo da parte della liturgia indica che realmente il mondo non ha mai cessato di essere mondo di Dio». Benedire e non maledire significa, pertanto, imparare a riconoscere le tracce della presenza di Dio provvidente nella nostra storia e sui volti delle persone che incontriamo; esse sono il riflesso del volto del Signore e manifestazione della bontà custodita nel cuore di tutti quelli che lo cercano.

 

+ Ovidio Vezzoli

Vescovo di Fidenza

Periodo estivo: chiusura degli uffici di Curia

Con il numero 29 in uscita oggi il nostro settimanale diocesano sospende le pubblicazioni: ritornerà nelle case degli abbonati venerdì 2 settembre. Con l’occasione ricordiamo a coloro che non hanno ancora rinnovato l’abbonamento per il presente anno che possono farlo attraverso le modalità presenti sul nostro sito web a questo link: (http://www.ilrisvegliofidenza.it/index.php/abbonamenti)

Gli uffici della Curia Vescovile di Fidenza saranno chiusi dal 31 luglio al 16 agosto: riapertura il 17 agosto.

I nostri canali social resteranno sempre attivi e aggiornati!

Sergio Mattarella a Camaldoli a 80 anni di distanza dal Codice: “Lì si gettarono le basi future del nuovo ordine repubblicano”

Quando un regime dittatoriale, come quello fascista, giunge al suo disfacimento, a provocarlo non sono tanto le sconfitte militari quanto la perdita definitiva di ogni fiducia da parte della popolazione, che misura sulla propria vita il divario tra la realtà e le dichiarazioni trionfalistiche.

Si apre, in quei giorni, una transizione, a colmare la quale la tradizionale dirigenza monarchica palesa tutta la sua pochezza, dopo il colpevole tradimento delle libertà garantite dallo Statuto Albertino. In quel luglio 1943, nel momento in cui il suolo della Patria viene invaso dalle truppe ancora nemiche, mentre il Terzo Reich si trasforma rapidamente da alleato in potenza occupante, entrano in gioco le forze sane della nazione, oppresse nel ventennio della dittatura. La lunga vigilia coltivata da coloro che non si riconoscevano nel regime trova sbocco, anche intellettuale, nella preparazione del “dopo”, del momento in cui l’Italia sarebbe nuovamente risorta alla libertà, con la successiva scelta dell’ordinamento repubblicano.

Trova radice in questo l’esercizio di Camaldoli, voluto dal Movimento laureati cattolici e dall’Icas, l’Istituto cattolico attività sociali. Siamo nel pieno di una svolta: nel maggio 1943 le truppe dell’Asse in Tunisia si arrendono, ponendo fine alla campagna dell’Africa del Nord; il 10 luglio avviene lo sbarco delle truppe Usa in Sicilia. Il 19 luglio l’aviazione alleata dà avvio al primo bombardamento su Roma per colpire lo scalo ferroviario di San Lorenzo, con migliaia le vittime. Il 24 luglio sarà lo stesso Gran Consiglio del fascismo a porre termine all’avventura di Mussolini. Il convegno di Camaldoli si conclude il giorno precedente, mostrando di aver saputo avvertire il momento cruciale della svolta della storia nazionale.

Oggi possiamo cogliere il valore della riflessione avviata sul futuro dell’Italia e lo sforzo di elaborazione proposto in quei frangenti dai circoli intellettuali e politici che non si erano arresi alla dittatura. Dal cosiddetto Codice di Camaldoli, al progetto di Costituzione confederale europea e interna di Duccio Galimberti e Antonino Repaci, all’abbozzo di Silvio Trentin per un’Italia federale nella Repubblica europea, alla Dichiarazione di Chivasso dei rappresentanti delle popolazioni alpine, al Manifesto di Ventotene di Altiero Spinelli, Eugenio Colorni ed Ernesto Rossi, alle “idee ricostruttive della Democrazia Cristiana”, che De Gasperi aveva appena fatto circolare, non mancano sogni e progetti lungimiranti per fare dell’Italia un Paese libero e prospero in un’Europa pacificata.

A settantacinque anni dall’entrata in vigore della Costituzione della Repubblica è compito prezioso tornare sulle riflessioni che hanno contribuito alla sua formazione e alle figure che hanno avuto ruolo propulsivo in quei frangenti. Ecco allora che il testo “Per la comunità cristiana. Principi dell’ordinamento sociale”, dispiega tutta la sua forza, sia come tappa di maturazione di quello che sarà un impegno per la nuova Italia da parte del movimento cattolico, sia come ispirazione per il patto costituzionale che, di lì a poco, vedrà impegnati nella redazione le migliori energie del Paese, con il contributo, fra gli altri, non a caso, di alcuni fra i redattori di Camaldoli.

Occorreva partire, anzitutto, dal ripristino della legalità, violentata dal fascismo, riconosciuta persino nell’ordine del giorno Grandi al Gran Consiglio, con l’esplicita indicazione dell’esigenza del “necessario immediato ripristino di tutte le funzioni statali”, dopo una guerra che il popolo italiano non aveva sentita “sua”, con aggravata “responsabilità fascista”.

Da Camaldoli vengono orientamenti basilari, che riscontriamo oggi nel nostro ordinamento. Anzitutto la affermazione della dignità della persona e del suo primato rispetto allo Stato - con il rifiuto di ogni concezione assolutistica della politica - da cui deriva il rispetto del ruolo e delle responsabilità della società civile. Di più, sulla spinta di un organico aggiornamento della Dottrina sociale della Chiesa cattolica, emerge la funzione della comunità politica come garante e promotrice dei valori basilari di uguaglianza fra i cittadini e di promozione della giustizia sociale fra di essi.

Si identifica poi, con determinazione, il principio della pace: “deve abbandonarsi il funesto principio che i rapporti internazionali siano rapporti di forza, che la forza crei il diritto…”. Occorre “la creazione di un vero e non fittizio o formale ordine giuridico che subordini o conformi la politica degli Stati alla superiore esigenza della comune vita dei popoli”.

Vi è ragione di essere ben orgogliosi, guardando ai Padri fondatori del Codice di Camaldoli, per il segno che hanno saputo imprimere al futuro della società italiana, anche sul terreno della libertà di coscienza per ogni persona, descritta, al paragrafo 15, come “esigenza da tutelare fino all’estremo limite delle compatibilità con il bene comune”.

Il Cardinale Matteo Zuppi, nella sua lettera alla Costituzione, due anni or sono, riprendendo una considerazione del costituente Giuseppe Dossetti, iniziava così: “Hai quasi 75 anni, ma li porti benissimo! Ti voglio chiedere aiuto, perché siamo in un momento difficile e quando l’Italia, la nostra patria, ha problemi, sento che abbiamo bisogno di te per ricordare da dove veniamo e per scegliere da che parte andare…”. Non vi sono parole migliori.

Sergio Mattarella

Presidente della Repubblica

Foto: Ufficio per la Stampa e la Comunicazione della Presidenza della Repubblica

«In cammino sotto la guida dello Spirito»

«In cammino sotto la guida dello Spirito»

 

La vita cristiana si precisa, senza confusione, come vita in Cristo e vita nello Spirito santo. Si tratta di un cammino di lenta maturazione, di sequela dietro al Signore unico seguendo le sue tracce (cfr. 1Pt 2,21) e sotto la guida dello Spirito (cfr. Gal 5,16.25) che ci concede, in Cristo, di avere comunione con Dio Padre (cfr. Ef 2,18). In particolare, l’azione dello Spirito nella vita dei discepoli del Signore si esprime in una molteplice attività che potremmo riassumere attorno a quanto l’evangelo stesso ci documenta.

La prima azione dello Spirito, anzitutto, è quella di generare uomini e donne ad essere figli di Dio ovvero uomini e donne spirituali, che conoscono e hanno il pensiero di Cristo. Così il credente è reso dimora di Dio, tempio dello Spirito (cfr. 1Cor 3,16; Rm 8,9), ma anche sacerdote chiamato ad offrire la liturgia della vita come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio (cfr. Rm 12,1).

In secondo luogo, lo Spirito intercede nel cristiano. È lui che suggerisce come pregare e che cosa domandare davanti a Dio, perché, annota Paolo, noi nemmeno sappiamo che cosa sia conveniente chiedere (cfr. Rm 8,26-27). Vero maestro interiore degli umili pellegrini dell’assoluto, lo Spirito insegna ai discepoli l’arte difficile della preghiera, li inizia all’ascolto della Parola e li conduce a fare della propria vita un ’amen davanti al Signore. È lo Spirito che rende il cuore del discepolo ‘ascoltante’ (cfr. 1Re 3,9) ovvero sottomesso all’Unico che parla e pone sulle sue labbra l’invocazione di una rinnovata pentecoste per la chiesa e per l’umanità: «Vieni, Signore» (Ap 22,17), ma anche la supplica che non conosce paura e angoscia e si volge a Dio chiamandolo «Abba’, Padre» (cfr. Rm 8,15; Gal 4,6).

In terzo luogo, lo Spirito rende testimoni (cfr. Lc 24,48-49; Gv 15,26-27). E ciò avviene mediante l’intelligenza delle Scritture che egli mette in noi come dono, affinché possiamo discernere nelle lettere morte della Bibbia, la Parola vivificante del Signore (cfr. Eb 4,12). Questo rende il discepolo servo della Parola con la vita. Lo Spirito rende testimoni i credenti ravvivando in essi la memoria della pasqua del Signore ossia il memoriale del giorno della Domenica quale esperienza centrale della vita cristiana, in cui l’unica mensa della Parola e dell’Eucaristia si offre come tavola alla quale il credente è convocato per mangiare e riprendere forza nel cammino. Soprattutto, lo Spirito rende il discepolo testimone senza ipocrisia donandogli il coraggio (parrēsia) di non vergognarsi dell’evangelo, di non temere le potenze effimere del mondo, di non preparare prima la sua difesa (cfr. Mt 10,19-20) secondo calcoli di convenienze, ma di essere testimone della risurrezione, orientando alle realtà ultime ed eterne. L’interminabile schiera dei martiri di ieri e di oggi per la causa di Gesù è eloquente narrazione della potenza dello Spirito, che non emette giudizi di condanna, ma che si fa appello alla conversione per trovare misericordia e perdono.

Infine, lo Spirito è dispensatore dei doni in vista dell’edificazione dell’unico corpo del Signore che è la chiesa (cfr. 1Cor 12,4 ss.). Gualtiero di S. Vittore annota: «Lo Spirito agisce nella mente dando l’intelligenza, agisce nel cuore dando l’amore, agisce in tutto il corpo dando la vita, agisce nelle singole membra dando la forza: l’intelligenza contro l’ignoranza, l’amore contro l’egoismo, la vita contro la morte, la forza contro la debolezza» (Discorso III, 1, in CCCM 30, p. 27). La molteplicità e ricchezza dei doni ordinati dallo Spirito nel corpo ecclesiale non contemplano possibilità di concorrenza, di invidia e di gelosia. Commenta Agostino: «Se ami, ciò che possiedi non è poca cosa. Se tu ami l’unità, tutto ciò che in essa è posseduto da qualcuno è posseduto anche da te. Bandisci l’invidia e sarà tuo ciò che è mio, e se io bandisco l’invidia sarà mio ciò che tu possiedi. L’invidia separa, la carità unisce». (Commento a Giovanni 32,8, in CCSL 36, p. 304)

Attorno al tema dello Spirito si gioca molto della qualità della nostra vita di fede personale ed ecclesiale. È lo Spirito, infatti, che ci conduce a scorgere nella Parola, nell’Eucaristia e nella Chiesa l’unico corpo del Signore in atto di dono ai suoi. Se ciò è vero, allora significa che quando la centralità dell’azione dello Spirito di verità è offuscata, si procede alla deriva verso tre rischi fondamentali.

Anzitutto, l’assolutizzazione della Scrittura. Senza la sapienza dello Spirito si opera una lettura fondamentalistica, aggressiva nei confronti del mondo esterno, incapace di dialogo e soprattutto di misericordia. L’ascolto delle Scritture diventa, allora, motivo di conflitto, di distanza, di giudizio e non di comunione. In secondo luogo, l’assolutizzazione dell’esperienza liturgica e sacramentale. Senza la sapienza dello Spirito si procede verso il cerimonialismo, verso il privilegio dell’emozionale, del miracolistico e dello spontaneismo celando autentiche patologie umane e spirituali. Infine, l’assolutizzazione dell’elemento ecclesiologico, che si ritraduce in una ‘nevrosi pastorale’, che si consuma nell’attivismo senza sosta, sostituendo il primato dell’evangelizzazione con strategie momentanee che rincorrono i criteri esclusivi dell’efficienza.

Suona, dunque, anche per noi l’invito alla sapiente vigilanza che ci rivolge la parola vivente del Signore; da un lato, l’esortazione del risorto che, rivolgendosi alle sette chiese dell’Apocalisse, conclude: «Chi ha orecchio ascolti ciò che lo Spirito dice alle chiese» (Ap 2,7); dall’altro, si fa concreto l’ammonimento di Paolo: «Non spegnete lo Spirito» (1Ts 5,19).

+ Ovidio Vezzoli

vescovo di Fidenza

"Niente è più come prima": il messaggio del Vescovo Ovidio per la Pasqua

«Niente è più come prima!». Questa affermazione compare da tempo sulle labbra di molti nascondendo dietro di sé una forma di rassegnazione e, al contempo, di nostalgia davanti all’ineluttabilità degli avvenimenti a livello nazionale e mondiale che ci sovrastano e nei confronti dei quali sperimentiamo tutta la nostra inadeguatezza e impossibilità a cambiarne l’orientamento. Da un lato, dunque, l’espressione «Niente è più come prima!» è giustificata dal corso degli eventi che interpellano la vita di ciascuno e i cui nomi sono molteplici: la congiuntura economica e sociale, le promesse elettorali puntualmente smentite, la presenza di conflitti bellici che nella loro complessità si profilano senza soluzione a breve termine, gli strascichi della pandemia nella quotidianità della vita delle persone, una aggressività verbale e fisica mai conosciuta prima, un inaspettato e meschino stato di conflittualità dentro e fuori la comunità ecclesiale. In questa prospettiva il «Niente è più come prima!» registra un dato di fatto davanti al quale non ci si può sottrarre né avviare un processo di rimozione come se nulla fosse accaduto; ciò si tramuterebbe solo in un grave atto di irresponsabilità, come del resto è stato ampiamente dimostrato dal patetico slogan «Andrà tutto bene!». D’altro canto, dichiarare che «Niente è più come prima!» può presentarsi come una opportunità a partire dalla quale è possibile ricominciare imparando con sapienza ciò che la storia di questo tempo ci ha insegnato. Se è vero che la storia è maestra di vita c’è solo da sperare che essa abbia a trovare alunni umili, obbedienti e aperti alla fatica del pensiero, rifuggendo da ogni omologazione di un linguaggio ovvio, logoro e scontato, incapace di lasciare una traccia.

È a questo punto che si innesta in modo pertinente e singolare l’annuncio evangelico e cristiano dell’evento della morte e risurrezione di Gesù di Nazareth, il Figlio di Dio, che per la sua potenza ha sconfitto ogni forma di morte, ha fatto rifiorire il deserto dell’umanità affranta infondendo speranza nuova e ha inaugurato il trionfo della vita definitiva. L’apostolo Paolo, in tal senso, scrivendo alla comunità discepola dell’evangelo, che è in Colossi, lo ha ribadito in modo illuminante ed efficace: «Se, dunque, siete risorti con Cristo cercate le cose di lassù, dove si trova Cristo assiso alla destra di Dio; pensate alle cose di lassù, non a quelle della terra» (Col 3,1-2). L’ammonimento dell’apostolo non si presenta come un invito a fuggire dalle responsabilità che la storia ci affida, bensì a prospettare un orizzonte nuovo dal quale ripartire e discernere l’umano che ci appartiene. L’evento della morte e della risurrezione del Signore ha cambiato il volto della storia dell’umanità e veramente «Niente è più come prima!». Il cammino dei credenti e non è stato coinvolto in un mutamento radicale rivelatore di senso, che conduce a discernere il segno del tempo con lo sguardo di Dio misericordioso e compassionevole, fedele alle promesse della sua Parola.

Indirizzandosi alla comunità cristiana che è in Corinto già attorno al 52 d.C., Paolo ha cristallizzato la prima formulazione del “credo” storico evangelico in questa espressione: «Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture, fu sepolto ed è risuscitato il terzo giorno secondo le Scritture e che apparve a Cefa e quindi ai Dodici» (1Cor 15,3-5). L’affermazione del nucleo fondamentale della fede cristiana porta Paolo a concludere che «se Cristo non è risuscitato, allora è vana la nostra predicazione ed è vana anche la vostra fede. Noi, poi, risultiamo falsi testimoni di Dio» (1Cor 15,14-15). Pertanto, «Niente è più come prima!» diventa una dichiarazione evangelica che rinvigorisce la speranza cristiana; essa è profezia di un cammino rinnovato di vita; è appello a riprendere la via evangelica al fine di lasciarsi incontrare da Gesù il crocifisso e risorto dai morti, nelle Scritture spiegate e nel pane spezzato, nella Parola e nell’Eucaristia, fondamenta e ragioni ultime della missione evangelizzatrice della Chiesa nel mondo.

«Niente è più come prima!» non diventa lo slogan di una speranza illusoria e inconsistente, ma appello a ripartire dal Signore al quale appartengono le nostre vite, affinché l’umanità non smarrisca l’unico necessario che le riconsegna il senso autentico del vivere e del lottare perché la vita sia il sigillo prezioso impresso sul volto di una umanità rinnovata nell’amore. «Niente è più come prima!», alla luce dell’evento della risurrezione di Gesù di Nazareth non significa voltare pagina disattendendo la lezione del passato. Al contrario, l’affermazione si presenta come atto di assunzione di responsabilità per tutti, senza delega alcuna, affinché ogni agire concorra all’edificazione dell’unico corpo vivente del Signore, che è la sua Chiesa; essa è luogo di fraternità universale, esperienza di comunione priva di pregiudizi culturali, etnici e religiosi, tavola di dialogo e di ricerca della verità e della bellezza della vita in Cristo, nostra Pasqua di risurrezione.

+ Ovidio Vezzoli

Vescovo di Fidenza

Cristianesimo al tramonto?: il messaggio del Vescovo Ovidio per il Tempo di Quaresima

Quaresima 2023

Cristianesimo al tramonto?

 

L’interrogativo non è né banale né scontato. Si tratta di una saggia provocazione che interpella la nostra vita dei credenti in questo tempo. All’inizio del cammino quaresimale che il Signore ci concede di vivere nella sua misericordia è necessario sostare con pazienza, nel silenzio, nella preghiera e in ascolto della sua Parola per imparare a discernere il segno del tempo e, soprattutto, cosa chiede il Signore ai suoi discepoli oggi.

Veramente il cristianesimo è al tramonto della sua storia? Veramente la Chiesa brucia? Si può dichiarare finita l’epoca cristiana? Qualcuno afferma che, ormai, dopo l’esperienza della pandemia che ha coinvolto l’intero pianeta terra, immersi in una crisi economica che non sembra avere termine, prigionieri della follia di molteplici conflitti che conducono al macello di una catastrofe umana, anche il panorama del cristianesimo è mutato considerevolmente. I segni sono sotto gli occhi di tutti e permangono impietosi nel loro perdurare: le assemblee liturgiche domenicali sono pressoché formate da persone anziane e sempre più diradate; la latitanza delle giovani generazioni che frequentano ormai le cattedrali alternative costituite dai centri commerciali; alle parrocchie è chiesto sempre di più di essere agenzie che erogano servizi religiosi a richiesta e possibilmente brevi, gratuiti, senza impegno di cambiamento di vita; la catechesi per i ragazzi dell’Iniziazione cristiana si riduce ad un incontro caratterizzato da dinamiche di gruppo a sfondo sociologico nella cornice di una aggregazione umana dall’evidente risvolto di servizio sociale, dove Gesù e la Chiesa permangono come illustre e sconosciuto ricordo di un passato infantile e ingenuo; la catechesi degli adulti è relegata a qualche evento sacramentale straordinario oppure è correlata a qualche eccezione folkloristica da sagra, in cui la dimensione religiosa funge da prassi assolutoria; si diffonde in modo evidente il costume di frequentare le chiese per occasioni circostanziate e legate ad un interesse individuale (funerali, benedizione della gola, del sale, degli animali, degli attrezzi agricoli …), il tutto corredato da un’enfasi rituale che non ha eguali; altrove si impiegano energie nella pastorale del turismo religioso che riduce le comunità parrocchiali ad essere agenzie che organizzano il tempo libero a tratti corredato da un alone di spiritualità confortevole e appagante.

Questi sono pochi tratti che delineano il presente delle nostre comunità cristiane in questo tempo. Si tratta di una narrazione che traccia un quadro esagerato e pessimista? Troppo severo? Forse. Probabilmente è scomodo proprio perché è reale e perché evidenzia fatti che spesso ci rifiutiamo di vedere, perché ci provocano ad un cambiamento di mentalità pastorale ovvero ad una conversione autentica, che procede ben oltre la rassegnazione giustificata dal “si è sempre fatto così!”, oppure “i tempi sono mutati, non si può fare diversamente!”. La situazione di gravità reale descritta risiede proprio nella rassegnazione che mortifica ogni speranza e introduce un modo di pensare e di vivere correlato alla barbarie e al disgusto della vita propria e degli altri. Non è il cristianesimo ad essere giunto al tramonto, bensì i cristiani che hanno rinunciato a riconoscere la loro identità e il senso della missione ad essi affidata! Questo modo di procedere è oltretutto confermato da una paura serpeggiante nel cuore delle persone, da una aggressività verbale e fisica ingiustificata e che nasconde patologie umane gravi, insultando la dignità dell’altro e impedendo alle prossime generazioni un presente e un futuro di speranza. Non si tratta, pertanto, della finitudine del cristianesimo o della Chiesa, ma di una certa generazione di credenti ancorati sull’arroganza della fede e che hanno dimenticato la correlazione discepolato-servizio per la causa dell’evangelo.

Ritengo che proprio in questo tempo difficile si nascondono opportunità inaspettate che non ci possono trovare impreparati e distratti. Oggi i cristiani hanno ancora una parola da annunciare e da testimoniare con le loro povere vite, perché non si tratta di una parola umana legata alle convenienze, collusa con la complicità di amicizie con i potenti di questo mondo e nemmeno prigioniera della ricerca del prestigio personale a tutti i costi nel tentativo di riconquistare il terreno perduto. I cristiani oggi ancora sono chiamati ad essere “il sale della terra, la luce del mondo, la città posta sul monte” (cfr. Mt 5,13-16), non per esibire se stessi, ma perché non intendono rinunciare a rendere ragione della speranza che è in loro (cfr. 1Pt 3,15): Gesù Cristo, lo stesso ieri, oggi e sempre (cfr. Eb 13,8).

Il tempo santo della Quaresima che prende avvio il Mercoledì delle Ceneri ed è orientato alla Pasqua di croce e di risurrezione del Signore, sta davanti a noi come tempo di grazia in cui è possibile ricominciare a guardare in alto, senza disattendere gli appelli di una umanità affannata e disorientata, che cerca la verità e il senso della vita oltre ogni effimera gioia momentanea. Dio ci conceda la grazia di intraprendere un vero cammino di ritorno a Lui, Signore delle nostre vite, compassionevole e misericordioso, la cui benevolenza non si è esaurita (cfr. Lam 3,22).

+ Ovidio Vezzoli

vescovo di Fidenza

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