“Prima avevamo un negozio nel villaggio di Pan Koy e l’attività agricola era scarsa. Dopo aver frequentato il corso di agricoltura ho iniziato io stesso a coltivare colture a lungo termine come il tè, le prugne damson, la mela selvatica, il caffè, le noci di macadamia e l’avocado. Ora ho piantato 5.000 piante di tè, 2.000 piante di caffè, 30 piante di prugne damson, numerose piante di noci di macadamia e avocado. Finalmente ho un reddito annuo”. Quasi si commuove U Ar Do, 56 anni, che vive con la moglie e i suoi quattro figli nel villaggio di Pan Koy, nella zona di Kyaing Tong in Myanmar. In quell’area è particolarmente forte la piaga della deforestazione. Nei villaggi rurali il legno è infatti utilizzato come combustibile per cucinare e per il riscaldamento; anche in città più grandi come Kyaing Tong il 90% delle famiglie ancora usa il legno per cucinare o per attività produttive come l’essiccazione del thè. A questo si aggiunge il traffico di thek, legno pregiato che cresce proprio in queste foreste. Non esiste alcun piano per la gestione delle foreste che regoli il disboscamento. Se da un lato è difficile agire a livello globale, è però indispensabile ridurre l’impatto della deforestazione attraverso semplici azioni all’interno dei villaggi. Proprio questo è lo scopo del progetto avviato nel 2014 in Myanmar da New Humanity International, fondata dal Pontificio Istituto Missioni Estere (Pime). Un intervento sostenuto anche dalla Chiesa italiana per offrire alla popolazione locale colture alternative efficaci e salvaguardare così il patrimonio forestale.
Sono stati avviati training agricoli – come quello frequentato da U Ar Do – per promuovere queste colture, oltre che buone prassi agricole, tecniche per la prevenzione dell’erosione del suolo, allevamento sostenibile. I training sul possesso delle terre sono una componente fondamentale per permettere ai contadini di diventare i legali proprietari delle terre che coltivano e contrastare così anche il fenomeno del “land grabbing”. Parallelamente, il progetto prevede la gestione di vivai per la distribuzione di piante per la riforestazione, il rimboschimento di aree specifiche (precedentemente disboscate per la coltivazione e poi abbandonate) e la costituzione di gruppi di “Preservazione forestale” nei villaggi. Finora hanno beneficiato del progetto 42 villaggi, 386 agricoltori, sono state distribuite 151 mila piantine, 65.500 talee e sono stati piantati 7860 alberi da frutto.
I dati globali tuttavia registrano un aumento dello sfruttamento delle materie prime e delle risorse a danno dei diritti umani e dell’ambiente. Secondo il VI Rapporto “I padroni della terra” curato dalla Focsiv, nel 2022 sono stati 26,1 milioni di ettari le terre accaparrate, pari a oltre 260 mila chilometri quadri. Quattrocentouno persone che lottavano in difesa delle comunità, dei popoli indigeni e della natura sono state uccise in 26 Paesi e altre 1.500 minacciate, violentate o detenute. È aumentato il tasso di deforestazione, il numero di incendi e la percentuale di terre destinate all’agribusiness e all’allevamento. Ciononostante, esistono, anche se fanno meno rumore, molte iniziative concrete in risposta al “grido della terra” – come quella realizzata in Myanmar – con cui si afferma la capacità di cambiare insieme, come comunità. Sono molteplici e spesso arrivano proprio dalle zone più povere. Da quello che Papa Francesco nel II Incontro mondiale dei movimenti popolari (2015) ha definito “popolo in movimento”, che ha saputo convertire la passione in azione comunitaria: “quel torrente di energia morale che nasce dal coinvolgimento degli esclusi nella costruzione del destino comune” (Fratelli tutti, 169).
Solo nello scorso anno i progetti di accesso all’acqua e di sviluppo sostenibile per favorire l’agricoltura biologica e migliorare la sicurezza alimentare e nutrizionale che la CEI ha finanziato grazie ai fondi dell’8xmille alla Chiesa cattolica sono stati 51 in 22 Paesi per 4,8 milioni di euro. Complessivamente dal 1996 ad oggi in tutto il mondo sono stati sostenuti 651 progetti in ambito agricolo per 47 milioni di euro.
Anche Jeanne – come U Ar Do – grida il suo “Finalmente!”. “Finalmente abbiamo acqua pulita!” Traspare soddisfazione dalle sue parole in occasione della consegna ufficiale della rete idrica realizzata in Burundi grazie al progetto “Acqua fonte di vita e sviluppo” portato avanti da Amu (Azione per un Mondo Unito) e Casobu (Cadre Associatif des Solidaires du Burundi), con il sostegno della CEI. Tra danze, canti e i discorsi di inaugurazione, è stata una giornata che ha segnato un punto di svolta per lo sviluppo delle comunità di Butezi e Ruyigi. “Da quando abbiamo l’acqua potabile nel villaggio – prosegue – sono più serena. I miei figli non devono più svegliarsi presto al mattino per andare a prendere l’acqua al fiume, sia per la scuola che per casa e seguono le lezioni con più attenzione. E anche io non sono più costretta a trasportare grandi quantità di acqua sulle spalle. Senza acqua, inoltre, per fare il bucato dovevo portare gli abiti alla sorgente, lavarli e poi tornare a casa. Ci voleva molto tempo. Adesso, invece, anche cucinare e lavare i piatti è diventato più facile, mi basta fare un salto alla fontana, che è proprio vicina a casa mia”. Con orgoglio aggiunge: “Grazie anche ai comitati di gestione siamo consapevoli che noi, donne e uomini della collina di Ruyigi, siamo ora i custodi di questo bene comune. L’acqua potabile ci appartiene e per questo dobbiamo proteggere questo patrimonio ricevuto”. Sta proprio qui il valore aggiunto del progetto: partecipazione, solidarietà e corresponsabilità, perché nessuno resti indietro. Un progetto che nel complesso riguarda l’ampliamento della rete idrica per raggiungere tutte le comunità della zona e nelle colline di Nombe, Nyarunazi e Kigamba/Rubaragaza, la ristrutturazione della rete di approvvigionamento di acqua potabile a Karaba-Misugi-Kigamba, la realizzazione di servizi igienici ecologici presso la scuola elementare di Nombe.
Il Burundi è uno dei Paesi più poveri al mondo, con quasi il 65% della popolazione che vive al di sotto della soglia di povertà. L’accesso all’assistenza sanitaria è negato alla maggior parte della popolazione e solo l’1% può permettersi un’assicurazione privata. In questo quadro l’acqua potabile diventa fondamentale, così come l’utilizzo di servizi igienici. I punti di forza di questa azione sono il coinvolgimento della popolazione nei lavori e la formazione di comitati locali per la cura e conservazione delle sorgenti e per la manutenzione delle infrastrutture realizzate. Sono previste inoltre attività per sensibilizzare e aiutare i beneficiari a strutturarsi in una mutua sanitaria di comunità o unirsi a mutue sanitarie di comunità esistenti. Con questo progetto, quasi 8 mila persone sono state raggiunte dall’acqua potabile a Ruyigi e di queste oltre 3 mila sono studenti. Ad esempio, nella scuola di Nombe, grazie alla costruzione di un acquedotto di 25 km, sono state realizzate delle fontanelle. Ma l’esperienza davvero innovativa è stata l’attivazione di servizi igienici ecologici che, con adeguati trattamenti e la formazione di allievi e insegnanti sulla corretta gestione, consentono il riutilizzo del materiale organico in agricoltura. Un altro piccolo ma significativo contributo alla sostenibilità ambientale nella prospettiva di un’ecologia integrale. Perché, come ricorda Papa Francesco nella Laudate Deum, “le istanze che emergono dal basso in tutto il mondo, dove persone impegnate dei Paesi più diversi si aiutano e si accompagnano a vicenda, possono riuscire a fare pressione sui fattori di potere”. E aggiunge che occorre una visione più ampia, in un’ottica maggiormente inclusiva delle forze della società civile, “un multilateralismo dal basso e non semplicemente deciso dalle élite del potere” per reagire con meccanismi globali alle sfide “ambientali, sanitarie, culturali e sociali, soprattutto per consolidare il rispetto dei diritti umani più elementari, dei diritti sociali e della cura della casa comune”.
Foto: CEI