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Il messaggio di Papa Francesco per la Giornata mondiale delle Comunicazioni Sociali

MESSAGGIO DEL SANTO PADRE FRANCESCO
PER LA 56ma GIORNATA MONDIALE
DELLE COMUNICAZIONI SOCIALI

Ascoltare con l’orecchio del cuore

 

Cari fratelli e sorelle,

lo scorso anno abbiamo riflettuto sulla necessità di “andare e vedere” per scoprire la realtà e poterla raccontare a partire dall’esperienza degli eventi e dall’incontro con le persone. Proseguendo in questa linea, desidero ora porre l’attenzione su un altro verbo, “ascoltare”, decisivo nella grammatica della comunicazione e condizione di un autentico dialogo.

In effetti, stiamo perdendo la capacità di ascoltare chi abbiamo di fronte, sia nella trama normale dei rapporti quotidiani, sia nei dibattiti sui più importanti argomenti del vivere civile. Allo stesso tempo, l’ascolto sta conoscendo un nuovo importante sviluppo in campo comunicativo e informativo, attraverso le diverse offerte di podcast e chat audio, a conferma che l’ascoltare rimane essenziale per la comunicazione umana.

A un illustre medico, abituato a curare le ferite dell’anima, è stato chiesto quale sia il bisogno più grande degli esseri umani. Ha risposto: “Il desiderio sconfinato di essere ascoltati”. Un desiderio che spesso rimane nascosto, ma che interpella chiunque sia chiamato ad essere educatore o formatore, o svolga comunque un ruolo di comunicatore: i genitori e gli insegnanti, i pastori e gli operatori pastorali, i lavoratori dell’informazione e quanti prestano un servizio sociale o politico.

Ascoltare con l’orecchio del cuore

Dalle pagine bibliche impariamo che l’ascolto non ha solo il significato di una percezione acustica, ma è essenzialmente legato al rapporto dialogico tra Dio e l’umanità. «Shema’ Israel - Ascolta, Israele» (Dt 6,4), l’incipit del primo comandamento della Torah, è continuamente riproposto nella Bibbia, al punto che San Paolo affermerà che «la fede viene dall’ascolto» (Rm 10,17). L’iniziativa, infatti, è di Dio che ci parla, al quale noi rispondiamo ascoltandolo; e anche questo ascoltare, in fondo, viene dalla sua grazia, come accade al neonato che risponde allo sguardo e alla voce della mamma e del papà. Tra i cinque sensi, quello privilegiato da Dio sembra essere proprio l’udito, forse perché è meno invasivo, più discreto della vista, e dunque lascia l’essere umano più libero.

L’ascolto corrisponde allo stile umile di Dio. È quell’azione che permette a Dio di rivelarsi come Colui che, parlando, crea l’uomo a sua immagine, e ascoltando lo riconosce come proprio interlocutore. Dio ama l’uomo: per questo gli rivolge la Parola, per questo “tende l’orecchio” per ascoltarlo.

L’uomo, al contrario, tende a fuggire la relazione, a voltare le spalle e “chiudere le orecchie” per non dover ascoltare. Il rifiuto di ascoltare finisce spesso per diventare aggressività verso l’altro, come avvenne agli ascoltatori del diacono Stefano i quali, turandosi gli orecchi, si scagliarono tutti insieme contro di lui (cfr At 7,57).

Da una parte, quindi, c’è Dio che sempre si rivela comunicandosi gratuitamente, dall’altra l’uomo al quale è richiesto di sintonizzarsi, di mettersi in ascolto. Il Signore chiama esplicitamente l’uomo a un’alleanza d’amore, affinché egli possa diventare pienamente ciò che è: immagine e somiglianza di Dio nella sua capacità di ascoltare, di accogliere, di dare spazio all’altro. L’ascolto, in fondo, è una dimensione dell’amore.

Per questo Gesù chiama i suoi discepoli a verificare la qualità del loro ascolto. «Fate attenzione dunque a come ascoltate» (Lc 8,18): così li esorta dopo aver raccontato la parabola del seminatore, lasciando intendere che non basta ascoltare, bisogna farlo bene. Solo chi accoglie la Parola con il cuore “bello e buono” e la custodisce fedelmente porta frutti di vita e di salvezza (cfr Lc 8,15). Solo facendo attenzione a chi ascoltiamo, a cosa ascoltiamo, a come ascoltiamo, possiamo crescere nell’arte di comunicare, il cui centro non è una teoria o una tecnica, ma la «capacità del cuore che rende possibile la prossimità» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 171).

Tutti abbiamo le orecchie, ma tante volte anche chi ha un udito perfetto non riesce ad ascoltare l’altro. C’è infatti una sordità interiore, peggiore di quella fisica. L’ascolto, infatti, non riguarda solo il senso dell’udito, ma tutta la persona. La vera sede dell’ascolto è il cuore. Il re Salomone, pur giovanissimo, si dimostrò saggio perché domandò al Signore di concedergli «un cuore che ascolta» ( 1 Re 3,9). E Sant’Agostino invitava ad ascoltare con il cuore ( corde audire), ad accogliere le parole non esteriormente nelle orecchie, ma spiritualmente nei cuori: «Non abbiate il cuore nelle orecchie, ma le orecchie nel cuore». E San Francesco d’Assisi esortava i propri fratelli a «inclinare l’orecchio del cuore».

Perciò, il primo ascolto da riscoprire quando si cerca una comunicazione vera è l’ascolto di sé, delle proprie esigenze più vere, quelle inscritte nell’intimo di ogni persona. E non si può che ripartire ascoltando ciò che ci rende unici nel creato: il desiderio di essere in relazione con gli altri e con l’Altro. Non siamo fatti per vivere come atomi, ma insieme.

L’ascolto come condizione della buona comunicazione

C’è un uso dell’udito che non è un vero ascolto, ma il suo opposto: l’origliare. Infatti, una tentazione sempre presente e che oggi, nel tempo del social web, sembra essersi acuita è quella di origliare e spiare, strumentalizzando gli altri per un nostro interesse. Al contrario, ciò che rende la comunicazione buona e pienamente umana è proprio l’ascolto di chi abbiamo di fronte, faccia a faccia, l’ascolto dell’altro a cui ci accostiamo con apertura leale, fiduciosa e onesta.

La mancanza di ascolto, che sperimentiamo tante volte nella vita quotidiana, appare purtroppo evidente anche nella vita pubblica, dove, invece di ascoltarsi, spesso “ci si parla addosso”. Questo è sintomo del fatto che, più che la verità e il bene, si cerca il consenso; più che all’ascolto, si è attenti all’audience. La buona comunicazione, invece, non cerca di fare colpo sul pubblico con la battuta ad effetto, con lo scopo di ridicolizzare l’interlocutore, ma presta attenzione alle ragioni dell’altro e cerca di far cogliere la complessità della realtà. È triste quando, anche nella Chiesa, si formano schieramenti ideologici, l’ascolto scompare e lascia il posto a sterili contrapposizioni.

In realtà, in molti dialoghi noi non comunichiamo affatto. Stiamo semplicemente aspettando che l’altro finisca di parlare per imporre il nostro punto di vista. In queste situazioni, come nota il filosofo Abraham Kaplan, il dialogo è un duologo, un monologo a due voci. Nella vera comunicazione, invece, l’io e il tu sono entrambi “in uscita”, protesi l’uno verso l’altro.

L’ascoltare è dunque il primo indispensabile ingrediente del dialogo e della buona comunicazione. Non si comunica se non si è prima ascoltato e non si fa buon giornalismo senza la capacità di ascoltare. Per offrire un’informazione solida, equilibrata e completa è necessario aver ascoltato a lungo. Per raccontare un evento o descrivere una realtà in un reportage è essenziale aver saputo ascoltare, disposti anche a cambiare idea, a modificare le proprie ipotesi di partenza.

Solo se si esce dal monologo, infatti, si può giungere a quella concordanza di voci che è garanzia di una vera comunicazione. Ascoltare più fonti, “non fermarsi alla prima osteria” – come insegnano gli esperti del mestiere – assicura affidabilità e serietà alle informazioni che trasmettiamo. Ascoltare più voci, ascoltarsi, anche nella Chiesa, tra fratelli e sorelle, ci permette di esercitare l’arte del discernimento, che appare sempre come la capacità di orientarsi in una sinfonia di voci.

Ma perché affrontare la fatica dell’ascolto? Un grande diplomatico della Santa Sede, il Cardinale Agostino Casaroli, parlava di “martirio della pazienza”, necessario per ascoltare e farsi ascoltare nelle trattative con gli interlocutori più difficili, al fine di ottenere il maggior bene possibile in condizioni di limitazione della libertà. Ma anche in situazioni meno difficili, l’ascolto richiede sempre la virtù della pazienza, insieme alla capacità di lasciarsi sorprendere dalla verità, fosse pure solo un frammento di verità, nella persona che stiamo ascoltando. Solo lo stupore permette la conoscenza. Penso alla curiosità infinita del bambino che guarda al mondo circostante con gli occhi sgranati. Ascoltare con questa disposizione d’animo – lo stupore del bambino nella consapevolezza di un adulto – è sempre un arricchimento, perché ci sarà sempre una cosa, pur minima, che potrò apprendere dall’altro e mettere a frutto nella mia vita.

La capacità di ascoltare la società è quanto mai preziosa in questo tempo ferito dalla lunga pandemia. Tanta sfiducia accumulata in precedenza verso l’“informazione ufficiale” ha causato anche una “infodemia”, dentro la quale si fatica sempre più a rendere credibile e trasparente il mondo dell’informazione. Bisogna porgere l’orecchio e ascoltare in profondità, soprattutto il disagio sociale accresciuto dal rallentamento o dalla cessazione di molte attività economiche.

Anche la realtà delle migrazioni forzate è una problematica complessa e nessuno ha la ricetta pronta per risolverla. Ripeto che, per vincere i pregiudizi sui migranti e sciogliere la durezza dei nostri cuori, bisognerebbe provare ad ascoltare le loro storie. Dare un nome e una storia a ciascuno di loro. Molti bravi giornalisti lo fanno già. E molti altri vorrebbero farlo, se solo potessero. Incoraggiamoli! Ascoltiamo queste storie! Ognuno poi sarà libero di sostenere le politiche migratorie che riterrà più adeguate al proprio Paese. Ma avremo davanti agli occhi, in ogni caso, non dei numeri, non dei pericolosi invasori, ma volti e storie di persone concrete, sguardi, attese, sofferenze di uomini e donne da ascoltare.

Ascoltarsi nella Chiesa

Anche nella Chiesa c’è tanto bisogno di ascoltare e di ascoltarci. È il dono più prezioso e generativo che possiamo offrire gli uni agli altri. Noi cristiani dimentichiamo che il servizio dell’ascolto ci è stato affidato da Colui che è l’uditore per eccellenza, alla cui opera siamo chiamati a partecipare. «Noi dobbiamo ascoltare attraverso l’orecchio di Dio, se vogliamo poter parlare attraverso la sua Parola». Così il teologo protestante Dietrich Bonhoeffer ci ricorda che il primo servizio che si deve agli altri nella comunione consiste nel prestare loro ascolto. Chi non sa ascoltare il fratello ben presto non sarà più capace di ascoltare nemmeno Dio.

Nell’azione pastorale, l’opera più importante è “l’apostolato dell’orecchio”. Ascoltare, prima di parlare, come esorta l’apostolo Giacomo: «Ognuno sia pronto ad ascoltare, lento a parlare» (1,19). Dare gratuitamente un po’ del proprio tempo per ascoltare le persone è il primo gesto di carità.

È stato da poco avviato un processo sinodale. Preghiamo perché sia una grande occasione di ascolto reciproco. La comunione, infatti, non è il risultato di strategie e programmi, ma si edifica nell’ascolto reciproco tra fratelli e sorelle. Come in un coro, l’unità non richiede l’uniformità, la monotonia, ma la pluralità e varietà delle voci, la polifonia. Allo stesso tempo, ogni voce del coro canta ascoltando le altre voci e in relazione all’armonia dell’insieme. Questa armonia è ideata dal compositore, ma la sua realizzazione dipende dalla sinfonia di tutte e singole le voci.

Nella consapevolezza di partecipare a una comunione che ci precede e ci include, possiamo riscoprire una Chiesa sinfonica, nella quale ognuno è in grado di cantare con la propria voce, accogliendo come dono quelle degli altri, per manifestare l’armonia dell’insieme che lo Spirito Santo compone.

Francesco

 

 

 

 

Il messaggio del Papa in occasione della Giornata mondiale del malato

MESSAGGIO DEL SANTO PADRE FRANCESCO
PER LA XXX GIORNATA MONDIALE DEL MALATO

11 febbraio 2022

«Siate misericordiosi, come il Padre vostro è misericordioso» (Lc 6,36).
Porsi accanto a chi soffre in un cammino di carità

 

Cari fratelli e sorelle,

trent’anni fa san Giovanni Paolo II istituì la Giornata Mondiale del Malato per sensibilizzare il popolo di Dio, le istituzioni sanitarie cattoliche e la società civile all’attenzione verso i malati e verso quanti se ne prendono cura.

Siamo riconoscenti al Signore per il cammino compiuto in questi anni nelle Chiese particolari del mondo intero. Molti passi avanti sono stati fatti, ma molta strada rimane ancora da percorrere per assicurare a tutti i malati, anche nei luoghi e nelle situazioni di maggiore povertà ed emarginazione, le cure sanitarie di cui hanno bisogno; come pure l’accompagnamento pastorale, perché possano vivere il tempo della malattia uniti a Cristo crocifisso e risorto. La 30ª Giornata Mondiale del Malato, la cui celebrazione culminante, a causa della pandemia, non potrà aver luogo ad Arequipa in Perù, ma si terrà nella Basilica di San Pietro in Vaticano, possa aiutarci a crescere nella vicinanza e nel servizio alle persone inferme e alle loro famiglie.

Misericordiosi come il Padre

Il tema scelto per questa trentesima Giornata, «Siate misericordiosi, come il Padre vostro è misericordioso» (Lc 6,36), ci fa anzitutto volgere lo sguardo a Dio “ricco di misericordia” (Ef 2,4), il quale guarda sempre i suoi figli con amore di padre, anche quando si allontanano da Lui. La misericordia, infatti, è per eccellenza il nome di Dio, che esprime la sua natura non alla maniera di un sentimento occasionale, ma come forza presente in tutto ciò che Egli opera. È forza e tenerezza insieme. Per questo possiamo dire, con stupore e riconoscenza, che la misericordia di Dio ha in sé sia la dimensione della paternità sia quella della maternità (cfr Is 49,15), perché Egli si prende cura di noi con la forza di un padre e con la tenerezza di una madre, sempre desideroso di donarci nuova vita nello Spirito Santo.

Gesù, misericordia del Padre

Testimone sommo dell’amore misericordioso del Padre verso i malati è il suo Figlio unigenito. Quante volte i Vangeli ci narrano gli incontri di Gesù con persone affette da diverse malattie! Egli «percorreva tutta la Galilea, insegnando nelle loro sinagoghe, annunciando il vangelo del Regno e guarendo ogni sorta di malattie e di infermità nel popolo» (Mt 4,23). Possiamo chiederci: perché questa attenzione particolare di Gesù verso i malati, al punto che essa diventa anche l’opera principale nella missione degli apostoli, mandati dal Maestro ad annunciare il Vangelo e curare gli infermi? (cfr Lc 9,2).

Un pensatore del XX secolo ci suggerisce una motivazione: «Il dolore isola assolutamente ed è da questo isolamento assoluto che nasce l’appello all’altro, l’invocazione all’altro». Quando una persona sperimenta nella propria carne fragilità e sofferenza a causa della malattia, anche il suo cuore si appesantisce, la paura cresce, gli interrogativi si moltiplicano, la domanda di senso per tutto quello che succede si fa più urgente. Come non ricordare, a questo proposito, i numerosi ammalati che, durante questo tempo di pandemia, hanno vissuto nella solitudine di un reparto di terapia intensiva l’ultimo tratto della loro esistenza, certamente curati da generosi operatori sanitari, ma lontani dagli affetti più cari e dalle persone più importanti della loro vita terrena? Ecco, allora, l’importanza di avere accanto dei testimoni della carità di Dio che, sull’esempio di Gesù, misericordia del Padre, versino sulle ferite dei malati l’olio della consolazione e il vino della speranza.

Toccare la carne sofferente di Cristo

L’invito di Gesù a essere misericordiosi come il Padre acquista un significato particolare per gli operatori sanitari. Penso ai medici, agli infermieri, ai tecnici di laboratorio, agli addetti all’assistenza e alla cura dei malati, come pure ai numerosi volontari che donano tempo prezioso a chi soffre. Cari operatori sanitari, il vostro servizio accanto ai malati, svolto con amore e competenza, trascende i limiti della professione per diventare una missione. Le vostre mani che toccano la carne sofferente di Cristo possono essere segno delle mani misericordiose del Padre. Siate consapevoli della grande dignità della vostra professione, come pure della responsabilità che essa comporta.

Benediciamo il Signore per i progressi che la scienza medica ha compiuto soprattutto in questi ultimi tempi; le nuove tecnologie hanno permesso di approntare percorsi terapeutici che sono di grande beneficio per i malati; la ricerca continua a dare il suo prezioso contributo per sconfiggere patologie antiche e nuove; la medicina riabilitativa ha sviluppato notevolmente le sue conoscenze e le sue competenze. Tutto questo, però, non deve mai far dimenticare la singolarità di ogni malato, con la sua dignità e le sue fragilità. Il malato è sempre più importante della sua malattia, e per questo ogni approccio terapeutico non può prescindere dall’ascolto del paziente, della sua storia, delle sue ansie, delle sue paure. Anche quando non è possibile guarire, sempre è possibile curare, sempre è possibile consolare, sempre è possibile far sentire una vicinanza che mostra interesse alla persona prima che alla sua patologia. Per questo auspico che i percorsi formativi degli operatori della salute siano capaci di abilitare all’ascolto e alla dimensione relazionale.

I luoghi di cura, case di misericordia

La Giornata Mondiale del Malato è occasione propizia anche per porre la nostra attenzione sui luoghi di cura. La misericordia verso i malati, nel corso dei secoli, ha portato la comunità cristiana ad aprire innumerevoli “locande del buon samaritano”, nelle quali potessero essere accolti e curati malati di ogni genere, soprattutto coloro che non trovavano risposta alla loro domanda di salute o per indigenza o per l’esclusione sociale o per le difficoltà di cura di alcune patologie. A farne le spese, in queste situazioni, sono soprattutto i bambini, gli anziani e le persone più fragili. Misericordiosi come il Padre, tanti missionari hanno accompagnato l’annuncio del Vangelo con la costruzione di ospedali, dispensari e luoghi di cura. Sono opere preziose mediante le quali la carità cristiana ha preso forma e l’amore di Cristo, testimoniato dai suoi discepoli, è diventato più credibile. Penso soprattutto alle popolazioni delle zone più povere del pianeta, dove a volte occorre percorrere lunghe distanze per trovare centri di cura che, seppur con risorse limitate, offrono quanto è disponibile. La strada è ancora lunga e in alcuni Paesi ricevere cure adeguate rimane un lusso. Lo attesta ad esempio la scarsa disponibilità, nei Paesi più poveri, di vaccini contro il Covid-19; ma ancor di più la mancanza di cure per patologie che necessitano di medicinali ben più semplici.

In questo contesto desidero riaffermare l’importanza delle istituzioni sanitarie cattoliche: esse sono un tesoro prezioso da custodire e sostenere; la loro presenza ha contraddistinto la storia della Chiesa per la prossimità ai malati più poveri e alle situazioni più dimenticate. Quanti fondatori di famiglie religiose hanno saputo ascoltare il grido di fratelli e sorelle privi di accesso alle cure o curati malamente e si sono prodigati al loro servizio! Ancora oggi, anche nei Paesi più sviluppati, la loro presenza è una benedizione, perché sempre possono offrire, oltre alla cura del corpo con tutta la competenza necessaria, anche quella carità per la quale il malato e i suoi familiari sono al centro dell’attenzione. In un tempo nel quale è diffusa la cultura dello scarto e la vita non è sempre riconosciuta degna di essere accolta e vissuta, queste strutture, come case della misericordia, possono essere esemplari nel custodire e curare ogni esistenza, anche la più fragile, dal suo inizio fino al suo termine naturale.

La misericordia pastorale: presenza e prossimità

Nel cammino di questi trent’anni, anche la pastorale della salute ha visto sempre più riconosciuto il suo indispensabile servizio. Se la peggiore discriminazione di cui soffrono i poveri – e i malati sono poveri di salute – è la mancanza di attenzione spirituale, non possiamo tralasciare di offrire loro la vicinanza di Dio, la sua benedizione, la sua Parola, la celebrazione dei Sacramenti e la proposta di un cammino di crescita e di maturazione nella fede. A questo proposito, vorrei ricordare che la vicinanza agli infermi e la loro cura pastorale non è compito solo di alcuni ministri specificamente dedicati; visitare gli infermi è un invito rivolto da Cristo a tutti i suoi discepoli. Quanti malati e quante persone anziane vivono a casa e aspettano una visita! Il ministero della consolazione è compito di ogni battezzato, memore della parola di Gesù: «Ero malato e mi avete visitato» ( Mt 25,36).

Cari fratelli e sorelle, all’intercessione di Maria, salute degli infermi, affido tutti i malati e le loro famiglie. Uniti a Cristo, che porta su di sé il dolore del mondo, possano trovare senso, consolazione e fiducia. Prego per tutti gli operatori sanitari affinché, ricchi di misericordia, offrano ai pazienti, insieme alle cure adeguate, la loro vicinanza fraterna.

Su tutti imparto di cuore la Benedizione Apostolica.
 

Francesco

 

Rosario per i bambini non nati e per la vita nascente

Come da tradizione, l'ufficio diocesano per la pastorale della famiglia e l'ufficio per la pastorale della salute promuovono la recita di un S. Rosario al mese (fino al mese di giugno) per i bambini non nati e per la vita nascente.

La recita avrà luogo presso la chiesa di San Michele Arcangelo in Fidenza alle ore 18.30.

Dopo i primi due appuntamenti (5 gennaio e 3 febbraio) ecco i seguenti:

- 2 marzo

- 6 aprile

- 8 giugno.

Corsi per fidanzati in preparazione al matrimonio - Vicariato della Bassa Piacentina

Sono state rese note le date degli incontri per fidanzati in preparazione al matrimonio per il Vicariato della Bassa Piacentina.

Gli incontri si terranno presso l’ex asilo della parrocchia di San Pietro in Corte a San Pedretto in via Centro 1 con inizio alle ore 21.

Di seguito le date: giovedì 10 febbraio, giovedì 17 febbraio, giovedì 24 febbraio, giovedì 3 marzo, giovedì 10 marzo. Le date dei successivi momenti formativi verranno comunicate ai partecipanti durante il corso.

Per informazioni è possibile contattare don Dario Faraboli al numero: 328.3643238.

Giuseppe Verdi e la pietas

Pubblichiamo di seguito l’intervento dal titolo “Giuseppe Verdi e la pietas” che il Maestro Dino Rizzo ha tenuto a Estavayer Le Lac (Svizzera) in occasione di una serata di gala dedicata a Giuseppe Verdi.

 

Giuseppe Verdi e la pietas

 

Il 16 febbraio 1866 Verdi scrisse al baritono Filippo Coletti: «Io evito, quanto posso, di entrare in Busseto perché sono segnato a dito come ateo, superbo». Ancora oggi, spesso, Verdi è presentato come persona atea e superba.

Nessuno di noi è in grado di penetrare l’animo del Maestro per verificare la presenza del sentimento della pietà, sia nel significato più antico di devozione religiosa che nel concetto più recente di impulso verso l’amore, la compassione, il rispetto degli altri. Per tentare di conoscere più a fondo Verdi vi invito a lasciarvi guidare dalle parole di San Giacomo: «Tu hai la fede e io ho le opere, mostrami la tua fede senza le opere ed io con le mie opere ti mostrerò la mia fede» e per rimanere nel tempo ridotto di questo concerto ci limiteremo a indagare la personalità verdiana sfiorando due soli argomenti: le sue musiche sacre e le sue opere caritatevoli.

In un’epoca in cui all’interno della liturgia, i musicisti italiani eseguivano musica in stile teatrale, sono convinto che Verdi conoscesse e condividesse le prescrizioni che la Chiesa cattolica pose come irrinunciabili ai compositori di musica sacra: accorciare i brani; evitare la ripetizione dei testi per favorire la loro comprensione; evitare la composizione nello stile teatrale (per esempio evitare gli accompagnamenti ritmici, l’elemento più sensuale che coinvolge fisicamente l’ascoltatore spingendolo al movimento); evitare l’esecuzione teatrale (pensiamo agli acuti, alle variazioni e alle cadenze virtuosistiche che i cantanti inserivano nei brani solistici); tenere in considerazione il canto gregoriano; ricercare la “gravità ecclesiastica" per favorire la contemplazione; privilegiare il contrappunto.

Se ascoltiamo, senza pregiudizi, i brani con testi sacri che Verdi ha inserito nei suoi melodrammi, noteremo che il Maestro ha fatto sue le richieste della Chiesa Cattolica, sin dalle prime opere, come la preghiera “Salve Maria” de I Lombardi alla prima crociata. L’elaborazione del canto gregoriano lo possiamo ascoltare nell’introduzione organistica del finale del secondo atto ne La Forza del Destino. Verdi, infatti, ottiene l’ampliamento del carattere sacro armonizzando l’inizio del Benedicite Dominum, il primo canto gregoriano della festività di San Michele Arcangelo, patrono della chiesa di Roncole, dove il bambino Verdi fu organista. Lo stile accordale-solenne, gli ha permesso di creare una semplice ma nobile grandiosità, ovvero la gravità ecclesiastica. Introduzione strumentale ottima per la successiva preghiera “La Vergine degli Angeli” in cui l’assenza di un ritmo marcato e dei virtuosismi vocali favorisce la contemplazione della Madre di Gesù.

Le prescrizioni di tenere in considerazione il canto gregoriano, di privilegiare il contrappunto e di ricercare uno stile musicale adatto ad ampliare e trasportare ai fedeli i significati dei testi sacri, sono ampiamente identificabili nella Messa da Requiem. Il 22 maggio 1874, alle ore 11 in San Marco a Milano, avvenne la prima esecuzione all’interno di una Liturgia che «La nuova Illustrazione universale» del 14 giugno definì «messa secca, cioè senza consacrazione del pane e del vino» (l’attuale Liturgia della Parola). Rito celebrato da mons. Giuseppe Calvi, preposto del Capitolo metropolitano, con paramenti liturgici che il critico Edoardo Spagnolo descrisse come «magnifiche vesti» nella sua recensione pubblicata da «La Gazzetta di Milano» il 26 maggio 1874. In essa il critico, ateo dichiarato, definì la Messa da Requiem «arte posta a servizio d’un principio che non so accettare, ma quelle melodie, sono pur sempre la glorificazione, l’apoteosi della fede». Manzoni, uomo di fede, non poteva ricevere omaggio migliore.

Limitandomi al solo Libera me, desidero condividere con voi l’emozione che provo all’ascolto della ripetizione del Requiem ascoltato all’inizio della Messa. È una citazione del Libro dell’Apocalisse di San Giovanni, là dove il Supremo Giudice, dopo la condanna dei peccatori al fuoco eterno e la discesa dal cielo della nuova Gerusalemme, afferma: «Ecco, io faccio nuove tutte le cose». E il brano angosciante ascoltato all’inizio della Messa, nel Libera è eseguito nella nuova e delicata versione per solo coro e in un ambito sonoro più acuto per indicare che l’angoscia iniziale è trasfigurata in un’estatica serenità perché nella nuova Gerusalemme, come scritto nell’Apocalisse «non vi sarà più morte, né lutto, né grido, né pena esisterà più, perché il primo mondo è sparito». Nel Libera me il credente supplica il Signore affinché non sia confuso con i peccatori e condotto al fuoco eterno descritto nel Dies Irae, ma di essere accolto nella nuova Gerusalemme. È la supplica di tutte le persone di fede, anche dello stesso Verdi che in una lettera all’amico editore Giulio Ricordi confidò la sua predilezione per il canto gregoriano del “Libera Me Domine” quando, da bambino, accompagnava con l’organo i funerali nella chiesa di Roncole.

Parlando della generosità del Maestro il pensiero corre alla costruzione dell’Ospedale di Villanova e della Casa di riposo per musicisti di Milano, edifici ed istituzioni che realizzò esclusivamente con il suo denaro. Il pensiero corre anche alle numerose borse di studio, ai lasciti istituiti nel 1882 per aiutare ogni anno 33 famiglie povere di Busseto e 50 famiglie povere di Roncole, oltre alle abbondanti carità che, insieme alla moglie Giuseppina Strepponi, compì tramite il canonico Don Giovanni Avanzi, parroco di Vidalenzo e suo amico sin dalla giovinezza. Ma non dobbiamo dimenticare quanto fece per le attività di Don Carlo Uttini, suo cugino da parte della mamma. Sacerdote e pedagogista, Don Carlo e le nipoti Guglielmina e Giulia, dal 1867 aprirono nella provincia di Piacenza numerosi “Giardini dell’Infanzia”, gli attuali asili. Per quasi quarant’anni Verdi finanziò tutte le loro nuove attività educative e con il testamento dispose che parte del suo patrimonio fosse distribuito in favore degli asili di Busseto, Villanova, Cortemaggiore, Piacenza e Genova.

Vi invito a non fermarvi al solo valore economico di queste beneficienze ma di considerare anche le modalità con cui le realizzò: riservata, in forma anonima tramite persone di fiducia. Questo per non mettere a disagio i beneficiati, per non obbligarli a ringraziarlo in occasione di un qualsiasi incontro. Due soli esempi. Il primo riguarda l’Ospedale di Villanova. Il 15 aprile 1885 l’amico psichiatra Cesare Vigna, cui dedicò La Traviata, scrisse a Verdi: «Quando avrà luogo l’apertura del tuo ospedale? Nella mia qualità di direttore sanitario sentirei quasi un obbligo d’intervenire alla solenne inaugurazione». L’inaugurazione avvenne il 5 novembre 1888, tre anni dopo, e non fu per nulla solenne. La moglie Giuseppina così la descrisse a Don Avanzi: «L’ospedale fu aperto lunedì senza apparato, semplicemente, come si dovrebbe fare tutte le opere di carità, come questa di Verdi, grande, umanitaria, santissima!». Cerimonia fedele al pensiero di Verdi: «L’inaugurazione, come la bramo io, è la seguente. Consisterà nell’ammissione dei primi dodici infermi. E basta. Non si convengono inutili cerimonie per un luogo di dolore». E a Ricordi, Verdi diede un ordine preciso: «la consegna è di tacere», ordine che non fu rispettato perché Ricordi, l’11 novembre, fece pubblicare un articolo sulla Gazzetta musicale. Il secondo esempio è relativo alla Casa che fece costruire a Milano per accogliervi i vecchi artisti non favoriti dalla fortuna. Acquistato il terreno nel 1889, l’anno successivo all’apertura dell’Ospedale di Villanova, la Casa fu terminata dieci anni dopo nel 1899, e Verdi per non apparire vanaglorioso chiese che fosse aperta dopo la sua morte, dopo la sua sepoltura insieme a Giuseppina, là, immerso nella sua opera più bella, al servizio dei suoi ospiti. Tutte queste situazioni mi richiamano alla mente la “Ave Maria” inserita nell’Otello: “Maria, prega per chi adorando te si prostra, prega pel peccatore, per l’innocente e pel debole oppresso e pel possente, misero anch’esso, tua pietà dimostra”.

Concludendo: Verdi era veramente ateo e superbo? Personalmente condivido quanto scrisse Arrigo Boito, suo librettista e amico fidato che gli rimase vicino sino alla morte: “Egli ha dato l’esempio della fede cristiana per la commovente bellezza delle sue opere religiose, per l’osservanza dei riti” e prosegue ricordando “la sua bella testa abbassata nella cappella di Sant’Agata”. Cappella consacrata in cui Verdi fece celebrare regolarmente la Messa, in cui nel 1878 si sposò Filomena, sua figlia adottiva, e successivamente tutti i suoi discendenti.

Dino Rizzo

Restaurato il dipinto "San Nicola di Bari che resuscita tre bimbi"

ll dipinto “San Nicola di Bari che resuscita tre bimbi”, un’opera di Carlo Angelo Dal Verme, è tornato al suo posto nell’Oratorio della Santissima Trinità di Busseto. Ed è stato riposizionato poco prima delle festività come un regalo di Natale per la comunità di Busseto, con un simbolico richiamo alla figura di San Nicola e ai suoi legami con Babbo Natale (Santa Claus). L’opera è un olio su tela realizzato nel 1784-85, il cui restauro è stato curato dalla restauratrice Federica Romagnoli sotto la supervisione della dr.ssa Anna Coccioli Mastroviti della Soprintendenza di Parma e Piacenza e finanziato interamente dal Rotary Club Salsomaggiore con un particolare interessamento del socio Marco Pinna.

Grande soddisfazione è stata espressa dal parroco di Busseto don Luigi Guglielmoni, fortemente impegnato nel recupero e nella valorizzazione del grande patrimonio religioso, storico e artistico di Busseto. “Ringrazio il Rotary Club Salsomaggiore per aver reso possibile il restauro della tela – ha commentato don Luigi - . Il dipinto è ora tornato al suo posto nell’Oratorio della Santissima Trinità che è stato totalmente restaurato da poco ed ha una particolare importanza dato che qui si sposò Giuseppe Verdi”.

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Il dipinto è un olio su tela di grandi dimensioni (2,6x1,6 metri): la tela ha la particolarità di essere su un supporto ligneo complesso, una sorta di telaio. Sono state sostanzialmente due le problematiche affrontate durante il restauro: la sistemazione di una lacerazione sulla tela e la ripulitura della superficie da sbiancamenti e danni da umidità che rendevano la superficie pittorica molto offuscata, anche a causa di uno strato di colore bruno molto sensibile all’umidità che la ricopriva. La superficie è stata ripulita utilizzando un’emulsione particellare in cui è stata inserita una soluzione tampone acquosa. Lo strappo è stato invece ricucito preservando il tavolato e incollando i fili della tela cercando di ricreare la trama originale.

“Siamo orgogliosi di aver finanziato questo intervento, in un luogo importante come l’Oratorio della Santissima Trinità di Busseto, dove si è sposato Giuseppe Verdi. E’ il nostro fiore all’occhiello per questa annata” ha commentato il presidente del Rotary Club Salsomaggiore Roberto Cupola.

Annarita Cacciamani

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